Presentato in concorso a Venezia 72, "A Bigger Splash" è stato il film più fischiato e attaccato della compagine italiana che, a ben vedere, comprendeva titoli di gran lunga più discutibili, Bellocchio in primis. La colpa è soprattutto del regista Luca Guadagnino, che fin dai tempi del folgorante e molto divisivo "Io sono l'amore" ha caparbiamente alimentato la propria immagine di autore egocentrico e antipatico, polemico e non allineato, insofferente nei confronti del provincialismo di certa stampa italica ma attentissimo a coltivare una fitta rete internazionale di contatti "giusti".
In realtà, al netto delle baruffe giornalistiche, le critiche sono state decisamente ingenerose, perché "A Bigger Splash", film sicuramente imperfetto, ha almeno il merito di segnalarsi come un'opera visivamente stimolante e personale, effettivamente fuori dal coro.
In una Pantelleria battuta dal sole e dallo scirocco, trovano rifugio la rockstar convalescente Marianne, resa afona da un'operazione alle corde vocali, e il suo mansueto compagno Paul, documentarista in crisi creativa: insieme leggono, prendono il sole, fanno l'amore, si tuffano in piscina, vagano spesso nudi per casa, si concedono qualche escursione di tanto in tanto. A guastare il loro buen retiro arriva senza preavviso né invito l'incontenibile Harry, eccentrico produttore discografico, nonché ex amante di Marianne, in compagnia della maliarda figlia Penelope. Il lussuoso dammuso che li ospita diventa così presto un coacervo di tensioni, allusioni, pulsioni sottese, destinate inevitabilmente a deflagrare fino all'irreparabile.
Rivisitazione molto libera del leggendario "Le piscine" di Jacques Deray, con la coppia iconica Delon-Schneider al massimo del fulgore, "A Bigger Splash" segna il ritorno al cinema di Luca Guadagnino a sei anni di distanza da "Io sono l'amore". Nel frattempo, il regista ha continuato a girare spot patinati e fashion film per Ferragamo, Armani, Cartier. E si vede.
Guadagnino gira con vigore ed eleganza, muovendosi con altrettanta seducente fluidità tanto tra i paesaggi della brulla Pantelleria quanto sui corpi nudi, sudati, frementi dei suoi protagonisti, componendo inquadrature sofisticatissime e sfacciatamente pop, di innegabile e impetuosa potenza visiva. Conferma così il suo sguardo personalissimo, unico nel panorama del cinema italiano contemporaneo: è abilissimo nello spingere la propria estetica al limite del kitsch, sul crinale scivolosissimo del cattivo gusto, disseminando l'intera pellicola di riferimenti altissimi, colti e sagacemente modaioli, dai dischi ai libri, fino al titolo stesso, che cita un famoso dipinto di David Hockney.
Ma se in "Io sono l'amore" la cura estenuante di ogni dettaglio (viscontiana, si disse allora) risultava efficacemente funzionale alla descrizione di un ceto sociale irrigidito in sovrastrutture di formalismi e apparenze, nel mondo sregolato, istintuale e animalesco di "A Bigger Splash" questo estetismo ostentato sembra essere solo uno sterile esercizio di stile, alla ricerca di inutili ammiccamenti à la page. Tanto che, alla fine, la sua Pantelleria ricorda più una pubblicità di Dolce&Gabbane piuttosto che Rossellini o Antonioni. Ciò è drammaticamente evidente quando nella storia irrompe, a più riprese, il dramma dei migranti, che dovrebbe fare da contraltare tragicamente concreto e reale alla turbolenta pantomima di amorazzi e insoddisfazioni altoborghesi dei protagonisti. Non c'è shock, non c'è scontro: tutto è appiattito in una dimensione di patinata e artefatta plasticità, che allontana lo spettatore e impedisce qualsiasi vera partecipazione empatica.
Il difetto è soprattutto della sceneggiatura di David Kajganich: troppo rarefatta, troppo inconcludente, troppo grossolana, che si perde tra battute di becero infantilismo (il "siamo tutti osceni" che urla Harry) e non sfrutta appieno l'espediente drammaturgico più stimolante del film (il mutismo autoimposto della protagonista).
Soprattutto, Kajganich si dimostra incapace di creare personaggi autentici e tridimensionali, nonostante le prove del cast prestigioso aiutino ad arginare i danni: la Penelope della lanciatissima Dakota Johnson è una sciapa ninfetta di nabokoviana memoria che non conosce riscatto nemmeno nel pianto finale, la Marianne di Tilda Swinton sembra per l'ennesima volta un'aliena un po' scostante e un po' spaesata, il mite Paul di Matthias Schoenaerts, di cui si apprezzano rigore e compostezza, non lascia intravedere traccia del passato di abusi e dipendenza che, scopriamo, ha vissuto. Solo Ralph Fiennes, in un'interpretazione sprezzantemente sopra le righe, regala al suo vulcanico, bulimico, disperato Harry qualche momento di debolezza e tenera umanità (si pensi al breve colloquio in cui dice a Marianne che "non deve mai chiedere scusa"): anche se probabilmente sarà ignorato dai premi, questa è la sua performance più vivace, cangiante e coraggiosa da "Spider" di Cronenberg (altro che "Grand Budapest Hotel").
Decisamente peggio i personaggi secondari, ben oltre i limiti del macchiettismo, dalla comunista da salotto di Aurore Clément, addobbata come una Marta Marzotto qualsiasi, fino al carabiniere di Corrado Guzzanti, il cui ingresso in scena sancisce amaramente il tracollo dell'intero film.
"A Bigger Splash" deraglia definitivamente, infatti, quando abbandona il perimetro del della drammaturgia della carneficina, quella di Pinter, Beckett, Albee e Reza per intendersi, per abbracciare un'affannosa svolta gialla: perde fascino e compostezza, inizia a girare a vuoto senza che né pathos né tensione sfiorino mai veramente lo spettatore. Infine inciampa malamente, almeno nell'edizione italiana, a causa dei limiti di un doppiaggio che ridicolizza brutalmente l'intero film: si pensi alla lunga sequenza dell'interrogatorio in questura, durante la quale il personaggio dell'interprete si ritrova costretto a ripetere a pappagallo le domande (in italiano) dell'appuntato Guzzanti e le risposte (in italiano) dell'interrogata Marianne, in una surreale traduzione monolingue. L'effetto è grottesco.
Ma forse, conoscendo la natura di cinephile colto e finissimo di Guadagnino, è lecito pensare che anche questa sia una citazione, con riferimento alle sorti tragicomiche del personaggio dell'interprete de "Le mépris" di Godard. Forse.
cast:
Tilda Swinton, Ralph Fiennes, Matthias Schoenaerts, Dakota Johnson, Corrado Guzzanti, Aurore Clément
regia:
Luca Guadagnino
distribuzione:
Lucky Red
durata:
120'
produzione:
Frenesy Film Company, Cota Film, Studio Canal
sceneggiatura:
David Kajganich
fotografia:
Yorick Le Saux
montaggio:
Walter Fasano
In una Pantelleria battuta dal sole e dallo scirocco, trovano rifugio la rockstar convalescente Marianne, resa afona da un’operazione alle corde vocali, e il suo mansueto compagno Paul, documentarista in crisi creativa: insieme leggono, prendono il sole, fanno l’amore, si tuffano in piscina, vagano spesso nudi per casa, si concedono qualche escursione di tanto in tanto. A guastare il loro buen retiro arriva senza preavviso né invito l’incontenibile Harry, eccentrico produttore discografico, nonché ex amante di Marianne, in compagnia della maliarda figlia Penelope. Il lussuoso dammuso che li ospita diventa così presto un coacervo di tensioni, allusioni, pulsioni sottese, destinate inevitabilmente a deflagrare fino all’irreparabile.