Buddy (Jude Hill) è un bambino di nove anni e vive a Belfast. A scuola la maestra assegna una ricerca sull'allunaggio e Margaret Thatcher inizia la sua scalata a Primo Ministro. Buddy da grande vuole fare il calciatore nel Manchester United come George Best, ama i film d'avventura e ha una cotta per la sua compagna di classe Catherine. Lei è cattolica, lui protestante, come la sua famiglia. È l'agosto del 1969, l'inizio dei Troubles in Irlanda del Nord.
"Belfast" è l'Amarcord di Kenneth Branagh. Il punto di vista di Buddy è l'oggetto-soggetto della pellicola: da un lato il movimento di camera è iper-subordinato alla sua presenza, dall'altro la sua (apparente) assenza è soggettivizzata dalla macchina da presa "ad altezza Buddy" – come dice Branagh al Times. I disordini in Irlanda del Nord non sono il focus narrativo del film, semmai rappresentano il collante coesivo dell'autobiografia di Branagh, un determinante esistenziale che a livello metanarrativo rende superflua ogni presa di posizione storico-politica. A tenere banco sono i consigli del nonno (Ciarán Hinds) per conquistare Catherine, i furti delle barrette di cioccolato nel negozio in fondo alla strada, le moltiplicazioni a quattro cifre, i primi film con gli effetti speciali, il detersivo biologico della madre (Caitríona Balfe).
La dimensione intensionale ed estensionale di "Belfast" coincide, da qui, forse, la preferenza bicromatica. Una scelta cruciale a livello narratologico che, per esempio, segna una differenza sostanziale tra il film di Branagh e "Roma", a cui (a ragione) "Belfast" è spesso accostato: se nell'apprezzatissimo armarcord di Cuaron il bianco e nero digitale (come in "Belfast") è ontologia, in Branagh è un veicolo assiologico, di interpretazione del reale, che non è scelta ma passaggio – oltre i colori dei murales della Belfast di oggi. "Roma" è una pellicola anche neorealista, "Belfast" no.
Branagh racconta dei Troubles in (sole) due sequenze lontane tra loro. La prima, in apertura, funge da innesco proiettico al film; la carrellata circolare che isola Buddy in Mountcollyer Street e al contempo seziona le violenze nel campo lungo di-mostra il gioco di prestigio del regista britannico: una pellicola in cui il contesto è metadiscorso del/sul focus narrativo. La seconda, drammatica, ribadisce l'intenzione prolettica: durante l'ennesimo scontro tra protestanti e cattolici, sarà la paura di perdere la propria famiglia a convincere la madre di Buddy a lasciare Belfast per Londra (dove il marito ha trovato lavoro), uno dei pochi episodi in cui l'orizzonte della camera resta alto.
"Belfast" è un film senza nomi propri, ne conosciamo solo due, Buddy e Catherine. Ma', Pa' (Jamie Dorman), Granny (Judie Dench) sono gli epifenomeni di una narrazione dell'interpretazione (di e con Buddy). Nella pellicola di Branagh è sempre la conseguenza al centro, mai la causa: "Se andrò via da Belfast", dice il ragazzo, "mi prenderanno tutti in giro per come parlo e non avrò più amici". "Belfast" è alimentato da un ricircolo narrativo continuo, che ricolloca il dettaglio. I long take non dicono l'opposto: il ricordo ha un'elaborazione lenta, ma un carattere estemporaneo e ricorsivo, come le colonnine allargate della ringhiera che Buddy sfrutta per andare a giocare o tornare a casa.
Questa sovrapposizione tra intensione e estensione – di cui si diceva - conferisce al film un'atmosfera provocatoriamente inconsistente, infantile, persino atopica nella scena/sogno in cui Jamie Dorman (finalmente di ritorno ai film d'autore con cui aveva cominciato la carriera, prima di essere Mr. 50 sfumature) e Caitríona Balfe ballano "Everlasting Love" nella versione dei Love Affair; una scelta paradossale in una pellicola così storicamente connotata, che però restituisce uno degli ingredienti chiave del "a m'arcord" ("io mi ricordo") in "Belfast": la nostalgia. Un esercizio alla filosofia – il nonno "era un gran filosofo" – e alla ri-conoscenza, quella di Pa' per sua moglie, per aver cresciuto i figli da sola. Il rapporto tra Pa' e Ma' è una delle sottotrame più belle di "Belfast".
Come in "Roma" e/o in "È stata la mano di dio" - l'altro amarcord a cui "Belfast" è stato paragonato - anche la pellicola di Branagh ha un intertesto ricchissimo, dai western a Rachel Welch in "Un milione di anni fa" alla colonna sonora di Van Morrison, il controcampo impalpabile di "Belfast". Non a caso, la carrellata circolare attorno a Buddy è forse l'unico grande silenzio del film. Branagh ha scelto un tessuto sonoro riconoscibile, invadente, didascalico, talvolta onirico. La soundtrack di Morrison è la controparte ideale dello sguardo di Buddy. Lo spirito onirico di "Amarcord" diventa l'unica arma da contrappore a chi mette in vendita il senso di appartenenza: "Sei protestante o cattolico?"
"Belfast" condivide la verità emotiva di "Anni '40" di John Boorman. L'impressione è che il regista britannico abbia costruito un racconto disinteressato, disimpegnato, divertente e intimista come in Boorman e con un tema omnicomprensivo: del ricordo/memoria. Di nuovo, estensione e intensione si mischiano. La componente mnemonica intreccia la misura strumentale (il bianco e nero), interpretativa; il piano semantico è del ricordo. Il verbo di "Belfast" è (non) scordare. La necessità di andare avanti di cui parla Vulture circoscrive un territorio (romantico) che a Branagh interessa poco; "Belfast" "accorda" al centro ciò che è distante, "ri-corda". Ecco la carrellata circolare, e l'ultima battuta del nonno: "Non andrò in un posto dove non potrai cercarmi". A ognuno il suo amarcord.
cast:
Colin Morgan, Jude Hill, Jamie Dornan, Judi Dench, Caitriona Balfe
regia:
Kenneth Branagh
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
97'
produzione:
TKBC
sceneggiatura:
Kenneth Branagh
fotografia:
Haris Zambarloukos
scenografie:
Jim Clay
montaggio:
Úna Ní Dhonghaíle
costumi:
Charlotte Walter
musiche:
Patrick Doyle