Sotto il sole e nel bel mezzo delle dune desertiche del Gibuti, è stazionata la legione straniera francese. Alla loro guida, troviamo il sergente Galoup (Denis Lavant), strettamente legato al suo maturo comandante, Bruno Forestier (Michel Subor), a cui cerca di stare sempre vicino e verso cui prova molto affetto. L’arrivo della giovane recluta Gilles Sentain (Grégoire Colin) e l’attenzione che questi attira, fa nascere in lui una forte gelosia nei suoi confronti, che lo spinge a metterne a rischio la vita. Dopo essere stato scoperto, è costretto a dare le dimissioni e tornare alla vita civile a Marsiglia, dove vaga solitario e alienato per le strade, si rinchiude nel proprio appartamento, rimbocca il letto come al campo, e medita, assediato dai rimorsi, il suicidio. Non trova ragione di vita né il proprio posto al mondo all’infuori della compagnia, a cui non può che tornare con i ricordi, in cui questa viene delineata come un’inclusiva e accogliente famiglia: "Non sei più africano, sei un legionario", dice a un suo sottoposto. Le sue fila sono composte infatti da uomini bianchi, neri e di diverse nazionalità (da un russo disilluso dagli ideali della madrepatria a due italiani che pescano e cucinano pomodori), in un microcosmo in cui a vicenda si curano le ferite, si insegnano i termini in francese e soprattutto si gode del diritto di non essere giudicati per il proprio passato. Sentain rivela di essere un orfano trovato sulla tromba delle scale, mentre Forestier si era rifugiato lì "dopo i fatti dell’Algeria". Il rimando è a "Le petit soldat" (1963) di Jean-Luc Godard, in cui l’attore, Michel Subor, interpretava un giovane con lo stesso nome che, appartenendo a un’organizzazione di estrema destra oppositrice della resistenza algerina, aveva disertato l’esercito[1]. Nel territorio dell’ex – colonia francese, si realizza dunque un intreccio di lingue, culture, etnie; una fusione tra gli stessi soldati, tra questi e i locali (la prima scena in discoteca in cui flitrano con le ragazze del posto), fino a una simbiosi col paesaggio naturale (fig. A).
La compagnia trascorre le giornate in una completa stasi, scandita da precise e routinarie attività. La guerra vera non arriva mai, la morte per caso, quasi come per beffa (un elicottero impegnato in simulazioni cade in mare, causando la morte dei passeggeri). L’intreccio alla base del film (la relazione triangolare in un contesto esclusivamente maschile) è tratto, molto liberamente, dal racconto "Billy Budd, marinaio" (1924) di Herman Melville, mentre la sua struttura prende spunto dall’adattamento operistico che Benjamin Britten ne ha tratto nel 1950 [2]. Quest'ultima intervalla una serie di "numeri" coreografici, le lunghe esercitazioni, in cui gli uomini sono organizzati come un gruppo di danzatori: perfino quando sono sott’acqua, i loro movimenti coordinati richiamano quelli del nuoto sincronizzato (fig. B). Anche Galoup e Gilles si "affrontano" muovendosi in cerchio come ballando un tango e, quando quest’ultimo gli tira un pugno, il movimento ha un evidente effetto scenico. La forma di rituale che queste assumono si ritrova anche nelle loro altre occupazioni: le cerimonie funebri e le attività domestiche in cui sovente li vediamo impegnati e che mai avremmo associato a dei militari: stirare e stendere i vestiti, cucinare i propri piatti. A un certo punto, uno stacco ci mostra una ragazza africana compiere le medesime azioni, evidenziando un palese parallelismo.
Così, se il compito dei legionari è di performare la mascolinità in ogni situazione, lottando coraggiosamente per la causa a cui sono affidati ("servi la buona causa e muori" è il motto impresso per sempre sulla loro pelle), qui vediamo piuttosto che performano la femminilità, nelle azioni domestiche così come nelle lunghe fasi di addestramento (in particolare, quando i loro corpi si stringono come in un caloroso abbraccio, fig. C). L’obbiettivo è dunque mettere in discussione le logiche binarie fisse promosse dall’istituzione, che, se poteva apparire "aperta", si rivela in questo senso assai rigida e coercitiva. Spingendo i suoi uomini a reprimere ogni emozione, a mostrarsi sempre "tutti d’un pezzo", ne nega lo statuto di "macchina desiderante" e ne causa forte instabilità identitaria, che può sfociare, come accade a Galoup, in pensieri e azioni impulsive[3]. "Il rituale è un modo per esprimere la sessualità dei corpi al di fuori dell'atto sessuale stesso", ha sottolineato la regista[4]. Guidando gli attori durante le riprese, lo scenografo Bernardo Montet voleva infatti mostrare i soldati "non solo come guerrieri, ma anche come persone fragili, fragili senza essere deboli". Questo è dovuto anche al fatto che "loro combattono per niente. Sono nel mezzo del deserto e la loro esistenza non è necessaria. È molto difficile per una persona sentirsi inutile e senza scopo"[5]. La scorza dura del loro corpo atletico e muscoloso, gli sguardi imperiosi che si rivolgono servono a nascondere la lacerazione interiore, che affiora latente (come in occasione della morte del commilitone, in cui mentre trasportano il feretro i loro visi si increspano senza lasciarsi andare alle lacrime). Una precarietà espressa dalla composizione delle inquadrature, che ricorrentemente tagliano e frammentano marcatamente le loro figure (fig.D). E anche dal loro stesso aspetto fisico: sul finale, la macchina da presa si sofferma prima sulla statura minuta del busto di Galoup, poi sul suo bicipite, così scolpito da risultare sproporzionato.
"Beau Travail" rappresenta l'apice della prolifica carriera della sua autrice. Claire Denis nasce in Francia nel 1946, ma trascorre la sua giovinezza nell’Africa Occidentale, tra le colonie del Camerun, Somalia, Burkina Faso e Gibuti, dove il padre lavorava come amministratore civile. Dopo essersi trasferita in Francia all’età di 13 anni, e essersi laureata alla scuola di Cinema IDHREC, comincia una lunga attività come aiuto regista, in particolare per Jacques Rivette e Wim Wenders. Esordisce alla regia nel 1988 con "Chocolat", in cui filtra la propria esperienza personale attraverso la storia di France, giovane donna che ricorda la sua infanzia in Camerun, in cui il padre era governatore locale. Nell'opera al centro di questa analisi, confluiscono diversi motivi ricorrenti della sua filmografia, a partire dalla condizione di estraneità, l’essere dislocati in un contesto altro (che ritroviamo a esempio in "J’ai pas sommeil", 1994, o "L’Intrus", 2004). Ma soprattutto l’attenzione e l’enfasi sui corpi: dalle primissime scene, i soldati sono raffigurati nella loro imponente compostezza statuaria, accompagnati dalla solenne musica operistica (fig. E). La sensazione della polvere, della materialità della terra, del tepore del clima africano visibile nei loro volti rischiarati dal sole e dal sudore sulla loro pelle, li eleva a un livello di massima astrazione. Claire Vassé evidenzia come: "protagonisti e dialoghi sono il più possibile separati, in modo da consentire ai personaggi di apparire come corpi allo stato brado, come entità selvagge. Proprio in questa libertà, il film assume definitivamente la sua corposità e il suo lirismo carnale: se la sensualità è il motore di tutti i film di Claire Denis, qui trova la sua espressione più estrema"[6].
Tra i suoi personaggi, la comunicazione è veicolata ben poco attraverso le parole, quanto soprattutto dagli sguardi. I sentimenti, mai dichiarati verbalmente, emergono soprattutto dai volti, non opachi o reticenti, ma che invece lasciano trasparire tutto quello che non può trovare libera manifestazione. A partire da "Chocolat", dove nei (non)sguardi tra la madre bianca di France, Aimée, e il domestico nero Protée, che si occupa della cura della casa e della bambina nei lunghi periodi in cui il padre è assente, si rivela tutto il desiderio inespresso tra i due (fig. F). Fino all’ultimo "High Life" (2018), in cui nel finale basta un cenno di intesa tra Monte e sua figlia Willow, ultimi sopravvissuti in un’astronave alla deriva, per trovare il coraggio di lanciarsi insieme nell’ignoto. In "Beau Travail" centrale è la ricorrente riproposizione, sovente tramite lunghe carrellate, di inquadrature oggettive degli abitanti del posto, che assistono, come attenti testimoni, alle attività dei soldati stranieri. L’intrusione di quest’ultimi sembra pacifica, lasciando i locali svolgere le loro faccende liberamente, ma ai margini affiorano i segni dell’eredità coloniale (sui muri di una casa, sono affissi grandi manifesti pubblicitari della Coca Cola e della Sprite). Sono in particolare le donne a giocare un ruolo cruciale: appaiono nelle scene in discoteca, ballando con i legionari da pari a pari; come artigiane, come la fabbricante di tappeti che salva e si prende cura anche di Sentain; in gruppi che osservano divertiti per strada lo spettacolo esotico che è la legione. Come il coro nella tragedia greca, forniscono una cornice ironica e critica in cui osservare la presenza dei militari in Africa, divenendo inoltre personificazione dell’occhio femminile che la regista rivolge in un contesto maschile[7]. Nel quale vediamo sovente Forestier in disparte a osservare i suoi soldati mentre si esercitano o si divertono (a volte anche attraverso una grata), in una posizione di stanco voyeur. Ma sono in particolare Galoup e Setain che, dal primo momento in cui si incontrano, intraprendono un intenso e continuo gioco di sguardi, invidiosi e minacciosi quelli del primo, circospetti e carichi di sfida quelli del secondo. Galoup ci rivela di essere geloso, ma rimane del tutto implicito da cosa scaturisca e il significato intrinseco della sua attrazione/repulsione che prova verso il commilitone. Denis infatti preferisce esibire piuttosto che spiegare, lasciando lacune incolmate.
La narrazione è orizzontale e piana, mettendo in sequenza gli eventi senza gerarchie né mai darne risalto a qualcuno in particolare. Così, anche gli accadimenti importanti che la "scuotono" sono inseriti nel flusso che configura il sentimento di inerzia esperita dai protagonisti, metaforizzata dai panni stesi ad asciugare. Sono soprattutto le ricorrenti e protratte inquadrature degli spogli paesaggi africani e del placido mare a "trascendere la dimensione della concretezza per immergersi in quelle impalpabile dell’apparenza e della sensazione, come proiezione della condizione emotiva di personaggi"[8]. Ma, se immediatamente ci vengono date le coordinate geografiche ("Pronto. Gibuti!" esclama un ufficiale dopo l’incipit), Il fatto che la maggior parte delle vicende siano una rappresentazione dei ricordi di Galoup, narrate tramite suoi flashback e commentate dalla sua voice over, le rende frammentarie e ondivaghe, sovente ventate di malinconie e occasione di autoriflessione ("non mi rimangono che informazioni conservate nella sua memoria", ammette). Talvolta, si incastonano parentesi dal carattere onirico ed allucinato, a partire dalla riproposizione del volto, della sua fidanzata, Rahel (Marta Tafesse Kassa), abbagliato dalle luci artificiali di un rosso acceso che lo illuminano (fig. G). Bruschi tagli di montaggio ci trasportano, senza soluzione di continuità, da un contesto a un altro o dai flashback alla cornice, richiamando i processi mentali.
Ruolo cruciale lo gioca inoltre, come in tutti i film della cineasta, la colonna sonora, che, mescolando generi, melodie e provenienze quanto più disparate, contribuisce a creare quella miscela di influenze di cui si parlava prima. Prendiamo l’inizio: sui titoli di testa, sentiamo una leggera melodia, che subito confluisce in un motivetto militare. Con uno stacco improvviso, entriamo in una discoteca, dove sulle note di una canzone pop, ballano insieme i soldati e le ragazze del posto. In seguito, le esercitazioni sono accompagnate prima da un brano operistico, poi da "Safeway Cart" di Neil Young; nei locali notturni si passa da "Simarik" cantata dal turco Tarkan a "Tourment d'amour" di Franky Vincent, originario della Guadalupa. Sono proprio i momenti in discoteca a tornare più volte alla mente di Galoup, in cui sembra sempre restio a buttarsi, preferendo restare in disparte. Solo nell’ultima scena lo vediamo, senza nessun altro intorno, finalmente al centro della pista. Sulle note dance di "The Rhythm of The Night" dei Corona, dapprima passeggia e si guarda intorno, ma non appena parte il ritornello, si lancia in una serie di piroette [9]. La canzone continua anche mentre scorrono i titoli di coda, riprodotta nella sua intera durata. Così, solo nella propria testa, viaggiando tra le proprie fantasie, il protagonista può dare sfogo liberamente al proprio sé. Rileva Guy Austin: "come le donne africane, lui esprime la sua identità fisicamente sulla pista da ballo piuttosto che negli esercizi di gruppo come i soldati. Nell’ultima scena, solitudine e disperazione vengono combinati a un’incredibile abilità fisica, eredità del suo allenamento militare, per formare un lamento danzante per la sua identità perduta e un frenetico addio al rhythm of my life, così come una celebrazione del corpo atletico maschile" [10] (fig. H).
NOTE
[1] Alla fine del film di Godard, dopo l’assassinio di un obbiettivo politico, Forestier si ritrovava a vagare solo, e si presuppone così che possa aver trovato rifugio nella legione straniera. In "Beau Travail", lo vediamo indossare lo stesso braccialetto, mentre un ulteriore punto di contatto tra le due opere è dato dall’utilizzo della voice over del protagonista, che funge da commento alle vicende.
[2] Il racconto, pubblicato postumo, vede come protagonista Billy Budd, giovane gabbiere che, ritrovatosi sulla nave da guerra "Indomitable”, si conquista subito il favore degli ufficiali e del capitano grazie alla sua abilità e alla sua indole allegra. Ciò scatena l'invidia del perfido maestro d'armi John Claggart, che finisce per denunciare l'innocente Billy d’ammutinamento. Denis ha dichiarato: "nelle storie dei marinai di Melville ci sono descrizioni di marinai che salgono e scendono dal sartiame ed è come una danza. E ho scoperto che tradurre ciò che Melville stava scrivendo sulla danza funzionava meglio del dialogo". (C. Darke, Desire is Violence, intervista sul sito di Sight&Sound).
[3] Cfr. S. Hayward, Claire Denis’s films and the post-colonial body, in "Studies in French Cinema 1 :3, 2001.
[4] C. Darke, op. cit.
[5] H. Weston, How Bernardo Montet Infused Beau travail with His “Choreographic Thought", intervista sul sito della Criterion Collection
[6] Claire Vassé, Libertè du corps, Postif, n.471.
[7] Cfr. G. Shambu, Beau travail: A Cinema of Sensation, sul sito della Criterion Collection
[8] M. Cacioppo, L’essere nel mondo: l’uomo e il paesaggio nel cinema di Claire Denis, in P.M. Bocchi, L. Malavasi, Claire Denis, Begamo Film, Bergamo, 2009.
[9] Montet racconta come "la coreografia era più semplice per Lavant. Per lui, muoversi è come ballare e parlare e saltare allo stesso tempo non è un problema […] Ma la scena finale è 100% Denis. Non puoi creare questo tipo di danza. Puoi creare la situazione con il club, gli specchi e la musica, ma la danza stessa no. È il suo stile. Ci sono molti tipi di danza nel film, ma questo è speciale e per un legionario è un ballo insolito a cui essere collegati" (H. Weston, op. cit.).
[10] G. Austin, Contemporary French Cinema – An introduction, Manchester University Press, Manchester, 2008.
cast:
Nicolas Duvauchelle, Marta Tafesse Kassa, Gregoire Colin, Michel Subor, Denis Lavant
regia:
Claire Denis
titolo originale:
Beau Travail
distribuzione:
Pyramide Distribution
durata:
90'
produzione:
La Sept/Arte, S.M. Films
sceneggiatura:
Claire Denis, Jean-Pol Fargeau
fotografia:
Agnès Godard
scenografie:
Arnaud de Moleron
montaggio:
Nelly Quettier
costumi:
Judy Shrewsbury
musiche:
Charles Henri de Pierrefeu, Eran Zur