Ondacinema

recensione di Matteo De Simei
7.0/10

A pochissimi giorni dalla cerimonia degli Oscar 2017, anche quest'anno fa capolino tra i candidati l'immancabile pellicola che tratta le diversità e le discriminazioni razziali ai danni degli afroamericani. Una necessità (o una formalità?) per l'Accademy e per l'America intera, come aspettare il film sull'olocausto in prossimità del Giorno della Memoria o il cinepanettone durante le festività natalizie. Le prove? Nel 2012 toccò alla scialba opera corale tutta al femminile di "The Help", nel 2013 Spielberg ha rievocato gli sforzi di Lincoln nel porre fine alla schiavitù. Tre anni fa toccò al deludente "12 anni schiavo", accolto tra mille polemiche in virtù dell'ambigua pubblicizzazione del cast e alle presunte "locandine razziste". E poi ancora l'anonimo "Selma", in concorso nel 2015, fino all'accesa controversia animata da Spike Lee lo scorso anno a causa dell'assenza di attori e attrici di colore tra i candidati.
E la strigliata del regista nativo di Atlanta è servita perché arriviamo a questo 2017 con addirittura due pellicole incentrate sull'universo afroamericano, "Moonlight" e appunto "Fences", traduzione: "recinti", "recinzioni", (puntualmente stuprata dal semplicistico e dozzinale titolo italiano, a dispetto del pensiero del suo autore August Wilson, drammaturgo scomparso prematuramente più di dieci anni fa e che grazie a questo dramma si aggiudicò il Premio Pulitzer nel 1985), diretto da Denzel Washington, paladino assoluto in campo cinematografico, al pari di Spike Lee, nella lotta dei neri d'America per l'affermazione dalla propria dignità.

Film da camera che privilegia spazi angusti, piani ristretti e dialoghi soffocanti, "Fences" è la storia di una famiglia di neri che risiede nella periferia di Pittsburgh degli anni cinquanta. Troy Maxson, un passato da star emarginata del baseball ed ex galeotto, è oggi un netturbino che si scaglia quotidianamente contro le ingiustizie sociali del proprio tempo. Uomo integro, orgoglioso e dedito al sacrificio ma anche estremamente pesante nella rigida educazione impartita ai suoi due figli, il primogenito Lyons aspirante musicista e il più giovane Cory giocatore di baseball in procinto di raggiungere il suo sogno di una vita. Vicino a Troy, la moglie Rose, l'angelo del focolare, unica in grado di tenere a bada l'instancabile esplosività del pater familias.
"Fences" è un lungo, introspettivo viaggio nell'America dei valori e dei conflitti familiari all'epoca (attuale) del cancro del razzismo. "I tempi sono cambiati, Troy. Tu sei solo arrivato troppo presto" gli confida il suo migliore amico Bono. Ma Troy risponde: "Non c'è mai stato un tempo chiamato "troppo presto"...". Un viaggio dove il bianco viene inquadrato solo di sfuggita dallo specchietto retrovisore di un autocarro, come ad assumere le sembianze fugaci di un Diavolo, in una delle numerose dicotomie allegoriche che costellano la pellicola (il baseball come la vita, la morte come il destino beffardo e l'ingiustizia sociale). Apologo che trova il suo apice nella costruzione del "recinto" che dà il titolo all'opera, non a caso voluto fortemente da Rose, la donna che subisce l'adulterio dal marito e che per questo ne ripudia il matrimonio ma grazie alla quale si può dare inizio a una nuova vita, tramandare un legame di sangue, sempre rimanendo ben arroccata e protetta, insieme ai propri figli, alle proprie radici, ai sacrifici di una vita di Troy, al proprio steccato. La grandiosa opera di Wilson funge da perfetto contraltare a un'altra monumentale pièce teatrale che è "Morte di un commesso viaggiatore" di Miller. Affrontando per certi versi le stesse tematiche da due prospettive opposte, Wilson e Washington fanno splendere il sole nel finale laddove nel dramma di Miller pervade solitudine e indifferenza.

"Fences" è un'opera fortemente voluta da Denzel Washington che già nel 2010 aveva portato a teatro e che ripropone anche sul grande schermo a dieci anni dal suo ultimo film da regista, dopo l'autobiografia di "Antwone Fisher" (2002) e il sottovalutato "The Great Debaters - Il potere della parola" (2007). Una filmografia coerente e passionale, dal forte impatto sociale, quella di Washington regista. Essenziale e senza fronzoli, accorto a dare ampio respiro a ogni personaggio del dramma, è però nelle vesti di Troy Maxson a diventare il mattatore assoluto del film, con un'interpretazione impressionante e meritatamente in odore di Oscar. A fargli compagnia una Viola Davis altrettanto da applausi.
Certo, "Fences" soprattutto nella seconda parte esce allo scoperto e denota tutte le sue imperfezioni, l'ampollosità di un racconto a tratti ripettitivo nelle immagini e sfiancante nei dialoghi, la durata eccessiva ben oltre le due ore ma il film di Washington ha il merito di sviluppare un soggetto avvalorando passionalità e funzionalità al progetto, non la mera convenzionalità di un tema divenuto cliché come gran parte dei film dell'Accademy ci hanno abituato in questi ultimi anni. Lo fa attraverso un coinvolgimento autentico e una profonda introspezione dei personaggi presentati sullo schermo, dal primo all'ultimo. Più di quanto accade nel patinato ed ellittico (seppur apprezzabile) "Moonlight", diretto concorrente agli Oscar, nettamente e ingiustamente più quotato alla volata finale.


20/02/2017

Cast e credits

cast:
Denzel Washington, Viola Davis, Mykelti Williamson, Russell Hornsby


regia:
Denzel Washington


titolo originale:
Fences


distribuzione:
Universal Pictures


durata:
138'


produzione:
Bron Studios, MACRO, Paramount Pictures, Scott Rudin Productions


sceneggiatura:
August Wilson


fotografia:
Charlotte Bruus Christensen


scenografie:
David Gropman


montaggio:
Hughes Winborne


costumi:
Sharen Davis


musiche:
Marcelo Zarvos


Trama
Troy Maxon è un ex giocatore di baseball che ora lavora come spazzino. Un giorno suo figlio Cory disubbidisce al padre e si presenta a un provino per il football che potrebbe portarlo a vincere una borsa di studio per un'università