Ava DuVernay, classe 1972, dopo aver vinto nel 2012 il premio per la miglior regia al Sundance Film Festival con "Middle of Nowhere", cambia registro e decide di raccontare con "Selma, la strada per la libertà" uno dei passaggi più importanti della vita politica del reverendo Martin Luther King: la celeberrima marcia in Alabama per sostenere il voto dei neri.
La scelta di intitolare la pellicola con il nome della città da dove partì la marcia è rappresentativa dell'intento di mettere in scena non tanto la vita del Dott. King, ma la presa di coscienza di un'intera comunità che rivendica a pieno titolo i diritti finora repressi e calpestati.
La sceneggiatura di Paul Webb introduce il reverendo King (interpretato con convinzione da David Oyelowo) ormai come un uomo affermato e riconosciuto in tutto il mondo, difatti il film si apre sul suo primo piano mentre ripete allo specchio il discorso per la cerimonia del ritiro del premio Nobel per la pace.
È il 1964 e, alle spalle del trentacinquenne King, ci sono le tante battaglie per i diritti civili compreso il famoso discorso "I Have A Dream". Nonostante la segregazione razziale fosse abolita formalmente, la vita dei neri del Sud era in continuo pericolo a causa della violenza dei bianchi che impediva di iscriversi alle liste elettorali e prendere parte alla vita pubblica del Paese.
King non trova un vero conforto dal primo colloquio con il presidente Johnson (Tom Wilkinson) e per questa ragione decide di partire da Selma, nel cuore dell'Alabama bianca, per incominciare la lotta pacifica.
I diversi incontri con Johnson, schiacciato dalle pressioni e convenienze politiche che, inizialmente, non gli permettono di acquistare il giusto coraggio, sono parte di un partita giocata a distanza, fatta da mosse strategiche e provocazioni da entrambe le parti. Wilkinson interpreta il presidente come un uomo sotto pressione, claudicante e dal fisico debole. Molte volte la cinepresa lo inquadra sotto i grandi quadri dei padri della Costituzione Americana, George Washington o John Adams: la Storia sembra incombere.
Dall'altra parte la regista racconta l'uomo Martin Luther King senza alcun filtro celebrativo, mettendo in risalto l'umanità del reverendo con i suoi compromessi e le sue debolezze. La scelta quindi di allontanarsi da intenti agiografici diventa una scelta azzeccata e coerente con l'impianto della narrazione. Ne deriva un ritratto forte e credibile che diventa la forza di tutto il film.
DuVernay sembra poi preoccuparsi di mettere in evidenza la veridicità di ogni momento, anche quello più intimo, come a voler rassicurare lo spettatore di non aver preso alcuna libertà. Per questa ragione in conclusione di molte scene appaiono le didascalie prese dai rapporti delle intercettazioni dell'FBI (H.J. Hoover lavora nell'ombra). Inoltre la marcia finale da Selma a Montgomery la vediamo attraverso le immagini d'epoca che prendono il posto alla finzione del film.
Forse questa attenzione a voler trasmettere la Verità con intenti quasi documentaristici è il principale difetto perché non regala invenzioni e inchioda tutto entro i perimetri della ricostruzione.
Al di là di questo aspetto che non permette di fare quel salto da buon film a film memorabile, "Selma" è da vedere non solo per i suoi intenti di cinema civile, che racconta un periodo nevralgico per la Storia americana post kennedyana, ma anche per il racconto onesto, emozionante e commovente senza troppa retorica.
In ultimo le didascalie, come ogni ricostruzione d'epoca che si rispetti, indicheranno il posto nella Storia di ogni protagonista: da una parte gli eroi come King e i suoi collaboratori, dall'altra parte i cinici e razzisti come il governatore dell'Alabama Wallace che Tim Roth incarna con la consueta forza luciferina.
Il film è in concorso con due nomination agli Oscar come miglior film e miglior canzone, "Glory" di John Stephens e Lonnie Lynn.
11/02/2015