Ultimo capitolo di una trilogia inaugurata da "
Amores Perros" e proseguita con "
21 Grammi", "Babel" conclude superbamente la riflessione sulla responsabilità e sulla compassione elaborata da Alejandro González Iñárritu in stretta collaborazione con Guillermo Arriaga, suo sceneggiatore di fiducia. Narratore di fama internazionale (i suoi romanzi sono stati pubblicati in Italia da Fazi), Arriaga è inoltre autore dello script di uno dei film più belli e importanti della scorsa stagione, "Le tre sepolture", strepitoso esordio alla regia di Tommy Lee Jones. Ed è proprio al film di Lee Jones che risulta essenziale collegare la sceneggiatura di "Babel", poiché qui Arriaga porta alle estreme conseguenze la nozione di senso di colpa come occasione di riscatto morale sviluppata nello splendido script di "The Three Burials of Melquiades Estrada".
Le quattro vicende intrecciate di "Babel" (due giovanissimi pastori marocchini che giocano a fare i cecchini, una turista americana colpita al collo dal proiettile sparato dal più giovane dei due, una babysitter messicana che per partecipare al matrimonio del figlio "sequestra" due bambini americani e un'adolescente sordomuta traumatizzata dal suicidio della madre) si fondano infatti su un'unica idea: il carattere ineluttabile della colpa, la colpevolezza immanente degli uomini.
In quest'ottica "Babel" più che un film politico è un film intriso di spiritualità, quella spiritualità che gli individui sono costretti a concepire per dare un senso alle loro sventure. La sceneggiatura di Arriaga è potente e coraggiosa, non indietreggia di fronte alle scorrettezze e alle forzature: le storie disegnano incastri difficili, addirittura stridenti (come nel caso del raccordo tra il segmento marocchino e quello giapponese), ma quello che potrebbe apparire artificioso (narrativamente) e canagliesco (moralmente) è in realtà il segno di una scrittura che tratta le situazioni come banco di prova degli individui. La forte drammaticità degli eventi diventa allora il tratto che fa risaltare la statura morale dei personaggi, la loro sofferta umanità.
Compassione è la parola chiave, culmine di una straziante crescita interiore, anche e soprattutto quando questa evoluzione coincide con il riconoscimento dei propri errori, con la sconfitta, la resa. Il confronto con "Le tre sepolture" è determinante per afferrare la radicalità di "Babel": se il film di Tommy Lee Jones metteva in scena un viaggio di espiazione per una colpa effettivamente commessa, in "Babel" la colpa non è più additabile con nettezza e spesso si colloca al di fuori - prima - dell'inizio del racconto (la fuga di Richard alla morte del figlioletto, il suicidio della madre di Chieko, il regalo del fucile). Scaraventati in un universo in cui la colpa si confonde col caso, i personaggi sono costretti a trasformarla in responsabilità personale, escogitando strategie individuali di sopravvivenza (è il concetto di autonomia morale nella sofferenza).
Iñárritu asseconda pienamente la visione di Arriaga conferendole una forma cinematografica sgretolata, martoriata, barcollante. A cuore aperto. La macchina a mano è la risorsa espressiva privilegiata per la rappresentazione dell'assoluta precarietà che caratterizza le vicende messe in scena, il montaggio "a strappi" l'arrangiamento sintattico prescelto per la definizione di un universo sul punto di collassare, il sonoro cacofonico e disturbato l'ambiente acustico appropriato per la restituzione di un'incomunicabilità totale. Nella concezione di Arriaga è il conflitto a essere la chiave di lettura delle relazioni umane e allora Iñárritu gioca sulle collisioni, gli urti, le lacerazioni: nel segmento giapponese la sordità di Chieko (Rinko Kikuchi) frustra le aspettative sonore più accattivanti, in quello messicano alcuni spari esplosi da Santiago (Gael Garcìa Bernal) interrompono bruscamente il lirismo di una sequenza festosa, in quello marocchino un colpo secco frantuma violentemente la dolcezza del sonno di Susan (Cate Blanchett).
Una regia belligerante, ma alla ricerca spasmodica di uno spiraglio di compassione, di solidarietà, di empatia. Che arriva inaspettata e commovente nel rifiuto della ricompensa in denaro da parte della guida marocchina, nell'abbraccio di un figlio alla madre disperata o in quello di un padre alla figlia nuda e afflitta. Cast superlativo - perfino Bazin sarebbe stato contento dell'amalgama tra attori professionisti (un Brad Pitt splendidamente corrugato, una Cate Blanchett dolorosamente vulnerata e una Rinko Kikuchi semplicemente prodigiosa) e non professionisti (su tutti i due bambini marocchini insieme a loro padre) - e fotografia maiuscola di Rodrigo Prieto ("I segreti di Brokeback Mountain", "Alexander", "La 25a ora"). Premio per la miglior regia al Festival di Cannes.
(in collaborazione con
Gli Spietati)
07/05/2008