A quasi otto anni dal suo "Joy", David O. Russell ritorna in sala con il suo nuovo film, frutto di una lunga gestazione e, per esplicita ammissione dell’autore, risultato di un estenuante lavoro in sede di sceneggiatura. All’elaborazione dello script avrebbe partecipato uno dei suoi attori totem, ovvero quel Christian Bale principale artefice del successo di "American Hustle-L'apparenza inganna", una delle pellicole a stelle e striscie recentemente più apprezzate tanto dal pubblico quanto dalla critica. Se altrettanto non può dirsi per "Amsterdam", è interessante chiedersi il per come e il perché.
Posto che il parterre di attori, non solo protagonisti, e la loro performance sono di tutto rispetto, che alcuni aspetti concernenti l’estetica, come la fotografia e le scenografie, siano assolutamente al di sopra della linea di galleggiamento, ciò che disturba nel film è la sensazione che non tutto l’intreccio risponda a quei criteri di equilibrio e verisimiglianza che dovrebbero costituire il faro con cui proiettare la luce su una vicenda che, in ossequio al credo del regista, affonda sempre e comunque le radici in una circostanziata dimensione storica. Nello stesso "Joy" il riferimento a fatti accaduti è palese, in "American Hustle" più ironicamente velato. In "Amsterdam", a stridere e a incidere negativamente sulla sua godibilità sono soprattutto le distanze tra la prima e la seconda parte dell’opera, i repentini cambiamenti delle location e l’andirivieni di personaggi cui non riusciamo ad affezionarci e che, così, finiscono per far gravare sulle spalle dei tre protagonisti (John David Robinson e Margot Robbie, oltre al succitato Christian Bale), l’incombenza di garantire la coerenza del sistema dei personaggi e con essa l’immediata comprensione della trama.
Altro aspetto su cui Russell si è fatto prendere la mano è l’eccesso di dialoghi i quali anziché compattare l’intreccio dandogli una direzione netta e perspicua fin dall’inizio, lo rendono a tratti tumido e irto di rivoli dispersivi e inconcludenti. La composizione del quadro manca della genialità vista e apprezzata in "American Hustle", laddove perfino le acconciature dei capelli, ben prima delle parole, tradivano l’indole, le ascendenze e le aspirazioni di ciascun personaggio. In "Amsterdam", invece, alcuni aspetti del trucco e dei costumi degli attori, più che sottolinearne l’eccentricità sono eccentrici in se, tanto da sconfinare nella ridondanza manieristica. In "American Hustle" le scene d’azione venivano sostituite da quelle di tensione, visivamente palpabili e introiettabili dal pubblico, qui invece si illanguidiscono con cambiamenti di tono, con battute e situazioni grottesche che guardano a Woody Allen laddove necessiterebbero più dello spirito dei fratelli Cohen, o dell’intensità e risolutezza di Martin Scorsese.
Per quanto riguarda la trama, in quella che inizialmente sembra una commedia che celebra i buoni sentimenti degli ex combattenti americani sul suolo del Vecchio Continente, due commilitoni stringono amicizia con un’infermiera e si trasferiscono ad Amsterdam. Il proposito dei tre è quello di giovare ai commilitoni che rientrano feriti o mutilati dalla grande guerra. Amicizia, amore e ottimismo sono i valori che emergono e trionfano nel film, anche se il messaggio del regista è come costituito da tanti cocci non perfettamente combacianti. Così, la storia d’amore tra Harold e Valerie che inizialmente decolla sembra diventare un riempitivo nel momento in cui la trama vira in tutt’altra direzione. Ritrovatosi infatti per vie traverse a New York, il terzetto viene accusato dell’omicidio di Elizabeth, la figlia del colonnello Meekins, loro comandante in Europa, a sua volta morto in circostanze sospette. Quando la caccia ai veri assassini del colonnello Meekins tinge la trama di giallo e il trio di protagonisti si ricompone, emerge la personalità del generale Gil Dillenbeck, un Robert De Niro cui viene affidato il compito di smascherare con un discorso memorabile le trame eversive del cosiddetto Consiglio dei Cinque, un gruppo di simpatizzanti neonazisti che aspira a rovesciare il governo legittimo. Dillenbeck, a tutti gli effetti un Deus ex machina, è un personaggio poco plausibile nel senso che la sua comparsa è talmente fugace da renderlo impalpabile. Eppure le sue parole costituiscono forse il salvagente che evita il naufragio definitivo del film: senza fare riferimento a dettagliate circostanze storiche, senza citare nome alcuno ma tuonando in nome della legalità costituzionale, Russell fa ribadire all’attore-icona del cinema americano concetti che indirettamente suonano come la più sferzante accusa nei confronti del trumpismo. Ad opinione di chi scrive, una trama depurata delle subplot e dei falsi twist avrebbe permesso una conclusione meno affrettata e un’opera più in linea con le aspettative del pubblico.
cast:
Robert De Niro, Rami Malek, Zoe Saldana, Taylor Swift, Anya Taylor-Joy, Andrea Riseborough, Alessandro Nivola, John David Washington, Margot Robbie, Christian Bale
regia:
David O. Russell
titolo originale:
Amsterdam
distribuzione:
20th Century Studios
durata:
134'
produzione:
New Regency, DreamCrew, Keep Your Head, Corazon Hayagriva
sceneggiatura:
David O. Russell
fotografia:
Emmanuel Lubezki
scenografie:
Patricia Cuccia, Erin Fite
montaggio:
Jay Cassidy
costumi:
J.R. Hawbaker, Albert Wolsky
musiche:
Daniel Pemberton