Lontano dalle ambizioni lucenti della Grande Mela, nella tranquilla vita da ceto medio silenzioso del Missouri, David Fincher celebra l'ultimo capitolo della crisi americana. Dopo la caduta del mito della felicità, la recessione economica, la perdita dei sogni di gloria e del lavoro più amato, a far da contraltare a una vita piena di delusioni resta solo un miraggio utopico: quello del matrimonio come status sociale e individuale, il raggiungimento di un equilibrio sentimentale che possa ripagare il fallimento in ogni altro campo.
Ma il decadimento del quarantenne newyorkese non conosce freni o limiti e Gillian Flynn, autrice del romanzo "Gone Girl" e della sceneggiatura di questo intricatissimo giallo messo in scena sotto la luce naturale del sole di campagna, lo sa talmente bene che quasi si intravede del sadico compiacimento nel fotografare il disfacimento totale dell'istituto dell'unione fra marito e moglie. Il matrimonio di Nick e Amy, infatti, si sfalda lentamente, dopo un accumulo di frustrazioni e antipatie reciproche, fino a deflagrare in un reflusso di odio violento, fino al desiderio di annientare l'altro.
Fincher, giunto così al suo decimo lungometraggio, trova pane per i suoi denti. Ormai, la parte finale della sua carriera, se si eccettua la superflua scorribanda "svedese" nel riadattamento del bestseller di Stieg Larsson, è tutta puntellata di pellicole che fanno della dissimulazione un elemento cardine imprescindibile. L'autore di solide opere mainstream è diventato negli anni, sempre più, un ardito sperimentatore di linguaggio cinematografico, un avventuroso cineasta capace di mettere in scena qualcosa, per poi rinnegarlo, rimetterlo in discussione, fino a capovolgerne il senso lungo il corso della narrazione, fino a lasciare lo spettatore pieno di dubbi, di incertezze sull'essenza stessa del film che ha visto.
Nella confezione formale con cui ci viene presentato, "L'amore bugiardo" (questo il titolo italiano) ci sembra un thriller classico, fatto di rivelazioni che vengono alla luce poco a poco, una scomparsa su cui indagare, dei sospetti da sciogliere e una verità definitiva da accertare. Ben presto, però, il racconto si sdoppia: al giallo incentrato sui sospetti di colpevolezza per la morte della moglie che cadono sulla testa del fedifrago Ben Affleck, si affianca la voce fuori campo di Rosamund Pike, moglie scomparsa ma con diverse verità nascoste nell'abitacolo di una macchina.
Ed è così che, come una macchia d'olio che si allarga su una tavola e che confonde l'occhio che cerca di ridefinirne la forma e l'estensione, il racconto di Fincher si fa tentacolare, labirintico, polifunzionale: c'è un acuto accenno alla potenza dei media in fatti di cronaca nera provinciale, con l'inevitabile perverso intreccio fra la necessità di "usarli" da parte dei protagonisti negativi e la voglia di emettere sentenze anticipate da parte di chi tenta di sfuggire alla monotonia della quotidianità; c'è l'intervento della legge americana, come spesso accade nella realtà pasticciona e desiderosa di correre a conclusioni affrettate, attraverso indagini disordinate, confuse e poco coordinate tra i vari enti che le portano avanti; e c'è poi la messa in scena del sentimento di ipocrisia che tiene vivo il matrimonio, come centro aggregatore di interessi molto terreni, che si tratti di necessità sessuali o bisogno di sicurezza patrimoniale, gli sposi sono legati a doppio filo.
Le teorie della Flynn trovano nello stile glaciale e compassato di Fincher l'ideale contraltare cinematografico. Ma il regista di "Fight Club" ci mette del suo, come dicevamo, nello stimolare lo smarrimento indotto dello spettatore. Come accadeva anche in "The Social Network", ma soprattutto in "Zodiac", Fincher mischia il registro narrativo teso e cupo a sprazzi di commedia grottesca che strappa più di un sorriso. Una scelta che spiazza, stranisce, ma che alla lunga paga: il suo racconto non è mai appianato, mai prevedibile, non c'è un solo momento in cui il livello della tensione rischia di scemare.
Certo, nell'ultima mezz'ora, senza svelare l'esito del thriller, il plot si perde fra troppi sentieri aperti, alcuni meccanismi che dovrebbero rendere a prova di qualsiasi contestazione la costruzione del mistero si inceppano visibilmente (non stupitevi e non sentitevi gli unici a porsi alcune domande sull'incongruenza di alcune svolte narrative), ma resta negli occhi e nel cuore il talento di un autore ambizioso che, pur parlando a un pubblico molto vasto, rispettando tutti gli stilemi della tradizione blockbuster hollywoodiana, non rinuncia mai a un suo personale ragionamento sulle possibilità più nascoste dell'arte della narrazione cinematografica.
E in chiusura, meritano un accenno i riconoscimenti individuali. In primo luogo la premiata ditta Trent Reznor/Atticus Ross, alla loro terza colonna sonora per Fincher, capaci di assecondare ormai alla perfezione proprio quel curioso alternarsi di mystery e commedia, amplificandone gli effetti emotivi. E in secondo luogo, e soprattutto, sottolineiamo la prova enorme di Rosamund Pike, biondissima e algida come sarebbe piaciuta a Sir Alfred Hitchcock, in grado di modificarsi nel look e nell'espressività, di scena in scena, in ossequio all'inafferrabilità della personalità di Amy. Una prova maiuscola che inquieta e strappa applausi.
cast:
Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry, Carrie Coon
regia:
David Fincher
titolo originale:
Gone Girl
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
149'
produzione:
New Regency Pictures, Pacific Standard
sceneggiatura:
Gillian Flynn
fotografia:
Jeff Cronenweth
scenografie:
Donald Graham Burt
montaggio:
Kirk Baxter, Angus Wall
costumi:
Trish Summerville
musiche:
Trent Reznor, Atticus Ross