Il terzo lungometraggio del regista egiziano Mohamed Diab abbandona le sponde del Nilo per approdare alla difficile realtà erede del conflitto israelo-palestinese. "Amira" è una pellicola divisiva nel senso positivo del termine, giacché le polemiche da essa innescate sono innanzitutto la prova che di fronte a opere simili è piuttosto difficile rimanere indifferenti. Un film che ha nel colpo di scena a orologeria. ma anche nella tensione meditativa, due dei suoi ingredienti migliori.
Nawar è uno dei tanti palestinesi condannati all’ergastolo per terrorismo che, imprigionato nel carcere di Megiddo, nel corso di una visita, manifesta alla figlia Amira e alla moglie Warda il desiderio di diventare padre per una seconda volta. Il piano escogitato è quello di far contrabbandare il proprio seme al di fuori del carcere per ottenere un’inseminazione artificiale. Gli accertamenti medici a margine del tentativo d’impianto rivelano però una realtà difficile da accettare: Nawar è sterile. Fatto che getta un’ombra non tanto sull’uomo quanto sulla consorte, nei confronti della quale si apre una sorta di processo familiare. Ecco l’abilità di Diab: ideare una sceneggiatura che fa del conflitto israelo-palestinese una cornice per illuminare più in profondità le società del Vicino Oriente.
Nel momento in cui all’interno delle comunità si deplorano le restrizioni e le crudeltà subite dai palestinesi, mentre si accettano come pratiche connaturate al concetto di famiglia il sospetto, l’ostracismo sociale nei confronti della donna, il film spiazza lo spettatore e guadagna quota. La misoginia è antropologicamente giustificabile per il solo fatto che permea di sé un contesto storico e sociale degradato da un conflitto senza fine? Questo è il dito puntato, questo è il tacito interrogativo rivolto al pubblico. Diab, si badi bene, non elabora una tesi preconcetta e affida al pubblico gli elementi per giudicare. Per quanto riguarda i personaggi perciò, se il destino di Warda è suo malgrado crudele, non meno irto di difficoltà quello di Amira, che si scopre essere figlia di una guardia carceraria israeliana la quale aveva a suo tempo sostituito il proprio seme a quello del prigioniero. Viene qui in un certo qual modo adombrato il tema dello stupro etnico. L’adolescente, di conseguenza, per evitare la taccia di spia, in quanto figlia di un padre biologico oggettivamente classificabile come nemico, decide di lasciare la comunità.
Per quanto riguarda le scelte di sceneggiatura, significativamente, non vi sono inquadrature dedicate alla controparte israeliana: il dramma nasce sì storicamente con l’occupazione della Palestina, ma affonda le radici nel contesto intimo e relazionale della famiglia. Tanto che l’atmosfera di paventata catastrofe, conseguente alla ricerca spasmodica della verità, accosta il film ad alcune pellicole di Jafar Panahi, quali "Il cliente" o "Una separazione". In altri termini, quanto più ci si accanisce nel tentativo di scoprire chi sia il vero padre di Amira, tanto più la giovane è accostabile alla figura di Edipo della tragedia greca.
Lo stile di regia di Mohamed Diab è dato da un ricorso significativo alla macchina a mano che segue nervosamente le fasi più convulse del racconto, trasmettendo cinesteticamente la mancanza di punti di riferimento, di certezze, per quanto le inquadrature siano ravvicinate. Come già era accaduto con "Clash" (2016), interamente girato all’interno di un furgone della polizia nel corso di una sommossa, il regista è a suo agio negli ambienti angusti che comunicano la sensazione del soffocamento, come accade in carcere. L'approccio stilistico non è tuttavia monotono, poiché qui gli incontri tra Nawar e i familiari sono particolarmente toccanti e l’interpretazione attoriale genuina confeziona sequenze in cui il melodramma non intacca la plausibilità. Per quanto riguarda le prove attoriali, da segnalare la convincente interpretazione della giovane Tara Abboud, che ci restituisce un personaggio vivo, palpitante nella sua giovanile capacità di tener testa a tutte le figure adulte della pellicola. Quello di Amira è il ruolo più sfaccettato, in quanto all'universo ideale giovanile di figlia si somma quello concreto delle scelte difficili dell'adulto.
Quanto poi alle polemiche seguite al film e al fatto che la Giordania, partner nella produzione, ha a suo tempo deciso di ritirare la candidatura del film per gli Oscar del 2022, preferiamo sorvolare e riteniamo sia ben più proficuo per il pubblico aver sottolineato gli evidenti pregi dell’opera. "Amira" è stato presentato a Venezia 78 per la sezione Orizzonti.
cast:
Kais Nashif, Saleh Bakri, Sameera Asir, Suhaib Nashwan, Waleed Zuaiter, Saba Mubarak, Ali Suliman, Tara Abboud
regia:
Mohamed Diab
titolo originale:
Amira
distribuzione:
Cineclub Internazionale
durata:
98'
produzione:
Acamedia Pictures, MAD Solutions
sceneggiatura:
Mohamed Diab
fotografia:
Ahmed Gabr
scenografie:
Nael Kanj
montaggio:
Ibrahim Elhefnawy, Ahmed Hafez
costumi:
Hamada Atallah
musiche:
Khaled Dagher