Il quarto capitolo "ufficiale" della popolarissima saga goliardica creata da Adam Herz, il settimo (uff) se si considerano anche gli "spin off" usciti direttamente per
l'home video, riunisce per la prima volta dai tempi di "American Pie 2", il cast della pellicola originale datata 1999. Motivo che dovrebbe bastare, almeno in teoria, a riportare in sala i tanti fan dei liceali porcelloni che avevano divertito il pubblico oltre un decennio addietro. Funziona?
L'operazione non è distante da quella tentata l'anno scorso da "
Scream 4": riprendere un
brand considerato defunto e tentare di innestarvi elementi di novità. D'altronde, nel bene e nel male, "American Pie" (assieme alle pellicole dei Farelly Bros.) verso la fine degli anni '90, definì in maniera seminale il cinema scatologico-demenziale, così come Wes Craven & Kevin Williamson fecero con l'horror. La formula dei vari "American Pie" è assodata e risaputa: gag scatologiche e volgari, quasi sempre a sfondo sessuale, che nascondono, neanche in maniera troppo velata, un sentimentalismo e un moralismo di fondo decisamente rassicuranti, e talvolta preoccupanti nel loro conservatorismo. Questo nuovo capitolo delle avventure degli ormai quasi quarantenni Jim, Michelle, Stifler, Oz & Co., è affidato alle mani degli esperti di genere Jon Hurwitz e Hayden Schlossberg, autori del ciclo di film demenziali "Harold & Kumar", popolarissimo negli Usa, che apparentemente tentano la carta inedita della nostalgia. Rispetto ad altri film del franchise, in particolare quelli
straight to dvd, le volgarità (non verbali, sempre insistite) sono più contenute, e si insiste sul presunto effetto "malinconico" che il ritrovo di questi goliardici vitelloni dovrebbe produrre. Ma non aspettatevi "Il grande freddo" degli anni duemila. La confezione è ancora più sciatta rispetto al passato, gli attori sono invecchiati maluccio (solo Sean William Scott appare convinto), e i due registi paiono ignorare che sono passati tredici anni dalla prima pellicola, e che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: falli al vento e qualche tetta non scandalizzano più nessuno nell'epoca delle "
Notti da leoni", e le timide volgarità e le scontate umiliazioni a cui sono sottoposti i protagonisti risultano anacronistici e fuori tempo massimo per far scattare qualche risata liberatoria. L'unico spunto potenzialmente vincente, quello del padre di Jim (il sempre simpatico Eugene Levy) che vorrebbe tornare a vivere in seguito alla scomparsa della moglie, è abbandonato per strada dopo qualche accenno.
Resta una pellicola statica e stiracchiata, che magari farà contenti i fan della prima con il suo piglio inutilmente autoreferenziale (nella festa finale compaiono un po' tutti i volti del primo episodio, ma se non lo si conosce a memoria sarà difficile apprezzare o sorridere), ma annoierà tutti gli altri. Se le volgarità sono parzialmente trattenute, lo stesso non si può dire del sottofondo ideologico bigotto e conservatore: in un film che vorrebbe anche essere un elogio del divertimento e della mancanza di morale, nonostante le innumerevoli tentazioni, non c'è una sola coppia sposata che si tradisca in quasi due ore di pellicola, alla fine il ritorno all'ordine, tra matrimonio e bebè è obbligatorio, e il sesso con un avvenente diciottenne non è nemmeno preso in considerazione.
Insomma, se nel '99 il film dei fratelli Weitz aveva la scusante della riflessione "sociologica", e metteva in scena (secondo alcuni) la sessualità giovanile con piglio "inedito", ora non ci sono più giustificazioni. E non c'è più motivo d'esistere per questo rigurgito d'epoca, che provoca solo irritazione e tedio.