In fondo è un film sull’ambiguità, "Allons enfants", secondo lungometraggio di finzione di Giovanni Aloi [*], presentato in concorso nella sezione Orizzonti alla Mostra del cinema di Venezia 2020 e approdato in questi giorni nelle sale e contemporaneamente sulla piattaforma del distributore I Wonder. L’ambiguità è, innanzitutto, quella della parola guerra, che compare nel titolo originale ("La Troisième Guerre") ma non in quello utilizzato per il mercato italiano (comunque in lingua francese), scelta discutibile che finisce per spostare il baricentro dal contesto in cui i personaggi si muovono all’aspetto cameratesco e patriottico.
Guerra: una parola usata (e talvolta abusata) negli ultimi vent’anni per dipingere una contemporaneità perennemente sotto assedio, prima da parte del terrorismo, poi, più recentemente, a causa della pandemia. E così quella al terrorismo è stata, dopo l’11 settembre, una guerra sia nel senso letterale (quella in Afghanistan), sia nel senso più lato di un conflitto tra civiltà che è esploso dopo gli attentati del 2001 e che si è riproposto dopo gli attacchi nel Vecchio Continente. Un’altra "guerra" è quella che si è combattuta contro il Coronavirus negli ultimi due anni e l’espressione "siamo in guerra" è stata usata regolarmente da capi di governo e ministri dell’interno (nel caso della lotta al terrorismo), e nuovamente, in questi ultimi tempi, anche da virologi ed epidemiologi.
Sebbene la recente emergenza sanitaria abbia convogliato l’attenzione su ciò che - almeno ora - può considerarsi un’urgenza più tangibile e immediata di quella legata al terrorismo, è alla guerra al terrore che rivolge il suo sguardo "Allons enfants", presentandoci le vicissitudini di una compagnia di militari francesi impegnati nelle operazioni di sorveglianza e prevenzione di possibili attacchi nei centri cittadini. L’ambiguità, in questo caso, è vedere la militarizzazione di un contesto urbano, con i soldati che si aggirano tra i civili che fingono di non vederli, accettandoli come una nuova normalità, salvo poi accusarli quando non intervengono a loro tutela negli episodi di microcriminalità. L’ambiguità è nel vedere Parigi dichiarata esplicitamente "zona di guerra", ottant’anni dopo che lo fu per questioni più rigorosamente militari (l’invasione nazista che arrivò sino alla Tour Eiffel). In tale contesto, la recluta Léo, un ragazzo bretone arruolatosi perché "vuole essere utile", si trova ad affrontare una quotidianità di appostamenti e continue ambulazioni, con il giubbotto antiproiettile sotto la mimetica e il fucile d’assalto col colpo in canna, accompagnato dal caposquadra sergente Coline - una donna di origine araba - e dal veterano Hicham, che davanti ai suoi commilitoni vanta (o per meglio dire millanta) esperienze di guerra nel Mali.
L’ambiguità è poi nel genere, con un war movie atipico perché sostanzialmente urbano, in cui non si spara nemmeno un proiettile, almeno fino alla scena finale. L’ambiguità è quella del nemico, invisibile e pronto a colpire, ma che non si manifesta mai, mentre invece proliferano davanti agli occhi dei soldati delitti più o meno gravi (dallo spaccio di stupefacenti al furto con destrezza, alla violenza di genere). Quei delitti di chi agisce indisturbato, incurante e sfrontato (il pusher, il pickpocket) perché sa bene – a differenza dei comuni cittadini – che i militari sono lì per altri motivi e non possono intervenire nelle "normali" vicende criminali (e quando lo faranno, andando contro gli ordini del proprio caposquadra, Hicham e Léo riceveranno un rimprovero formale dall'ufficiale in comando). L’ambiguità è anche e soprattutto quella degli stessi soldati e dei loro comportamenti: tra loro c’è chi smercia erba e chi la consuma, incluso lo stesso Léo, che aveva contribuito all’arresto dello spacciatore. Ma l’ambiguità di Léo si manifesta in vari e più incisivi frangenti, lui giovane di provincia arruolatosi per tentare di affrancarsi dai lavoretti precari di portuale, che ha un rapporto affettuoso ma travagliato con la madre, a cui non racconta nulla del proprio lavoro (perché proibito dal regolamento per ragioni di sicurezza) salvo spifferare ogni dettaglio ai primi ragazzi che incontra in un locale notturno durante la sua libera uscita.
Aloi gestisce tutto ciò con la precisione dell’esordiente e con il mestiere di chi comunque aveva all’attivo svariati corti e documentari. Lo fa privilegiando camera a mano e piani ravvicinati, che da un lato ben si sposano con il contesto urbano e con la logica del pedinamento – che ha un appiglio anche diegetico – ma che di contro rischiano di conferire un’estetica vagamente televisiva. Sul fronte della scrittura (il film è co-sceneggiato dallo stesso regista, partendo da un suo soggetto) si assiste alla costruzione di personaggi solo in parte a fuoco (lo sono Léo e Hicham, anche grazie alla eccellente recitazione dei due interpreti, lo è un po’ meno il sergente Coline), accomunati dal fatto di avere scheletri nell’armadio o comunque qualcosa da nascondere (non bellissimo e nemmeno tanto originale che, nel caso della donna-sergente, ciò sia una gravidanza) e tratteggiati con largo ricorso a stereotipi e cliché, che però tutto sommato non stonano. Ma si assiste altresì allo sviluppo di situazioni un po’ forzate, tra cui quella del telefono requisito allo spacciatore che avrà un ruolo decisivo nel tragico finale e, prima di allora, sarà l’escamotage utilizzato per introdurre un lungo monologo che espliciterà le riflessioni di un protagonista altrimenti di poche parole. Il finale, peraltro, darà una nuova e decisiva rimescolata al contesto, con la lotta al terrorismo che cede il posto al conflitto sociale e poi alla tensione psicologica, con il più classico dei mexican standoff che è diretta conseguenza del definitivo crollo emotivo del protagonista, con reminiscenze di "Taxi Driver" e "Full Metal Jacket".
"Allons enfants" è comunque, nel complesso, un’opera seconda [*] più che discreta, penalizzata nei temi da un contesto di attualità in rapida e continua evoluzione, che lo fa sembrare un film fuori tempo massimo, pur se portato a termine con rigore e intenzioni encomiabili, che avrebbero meritato qualcosa di più del modesto palcoscenico riservatogli nel nostro paese e in Francia. Forse abbiamo dimenticato o ormai assimilato l’effetto che ci fece, qualche tempo fa, iniziare a vedere i militari di pattuglia nelle nostre piazze e nelle nostre stazioni ferroviarie. Qualcosa di profondamente inquietante (al di là della retorica della sicurezza), almeno per chi non aveva già vissuto situazioni simili nel 1992 e, ancor prima, durante gli anni di piombo. "Allons enfants" ci ricorda quei momenti e quelle sensazioni, stimolando riflessioni non banali e calandoci nella prospettiva di chi quella situazione l’ha vissuta in prima persona, con un ruolo attivo ma evidentemente destabilizzante.
[*] Il film è indicato da più parti come opera prima, sebbene girato, presentato e distribuito successivamente all’altro lungometraggio di finzione diretto da Aloi, "Tensione superficiale". Ciò, probabilmente, a causa del fatto che i due film sono stati entrambi prodotti nel 2019, sebbene "Tensione superficiale" sia stato girato all'inizio di quell’anno (e presentato a novembre di quello stesso 2019 al Roma Indipendent Film Festival, per poi venir distribuito a febbraio 2021), mentre le riprese di "Allons enfants" risalgono alla fine del 2019, con la prima festivaliera a settembre 2020 e la distribuzione a ottobre 2021.
cast:
Anthony Bajon, Karim Leklou, Leïla Bekhti
regia:
Giovanni Aloi
titolo originale:
La Troisième Guerre
distribuzione:
I Wonder
durata:
90'
produzione:
Capricci Films, Bien Ou Bien Productions
sceneggiatura:
Giovanni Aloi, Dominique Baumard
fotografia:
Martin Rit
scenografie:
Lisa Rodriguez
montaggio:
Rémi Langlade
costumi:
Clara René
musiche:
Frédéric Alvarez, Bruno Belissimo