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recensione di Simone Pecetta

All'epoca delle riprese di "Aguirre, furore di Dio" Werner Herzog è un regista nemmeno trentenne dalle idee estremamente chiare, cui ha già dato forma nelle pellicole precedenti, ma che finalmente riesce a collezionare compiutamente in un film dalla rara potenza visiva e compattezza concettuale. Pura meraviglia, il film si apre catapultando lo spettatore in una delle più straordinarie sequenze della storia del cinema. La natura che lotta contro se stessa: un torrente nella sua piena furia, vette montuose immerse nelle nubi. E poi il profilo di una montagna inondata dalla nebbia ed una sterminata fila di uomini che scende faticosamente per le vene rocciose come ad animare la nuda pietra di un'aspra natura. È il Machu Pichu, una delle più incredibili location che la terra possa offrire, ma il taglio della ripresa di Herzog ce ne consegna una minima porzione così da non impoverire con un'ampia inquadratura descrittiva la potenza onirica dell'immagine di un paesaggio che sembra animarsi. Sono passati poco più di tre minuti, ma potreste smettere di vedere "Aguirre" ed essere pienamente soddisfatti.
Poi Kinski compare con sguardo cupo nei panni del protagonista Lope de Aguirre sancendo lapidario: "Nessuno di noi arriverà vivo laggiù". E già siamo nel cuore dell'azione, della missione dei conquistadores spagnoli sperduti tra le giungle peruviane alla ricerca del mitico Eldorado. Klaus Kinski, attore-feticcio nonché estensione corporea delle idee di Herzog, qui alla sua prima difficoltosa collaborazione col regista tedesco incarna la quintessenza di quel senso d'incubo che pervade il film  e che nel suo svolgersi emergerà sempre più fluendo da una visione della natura, la quale come prende il sopravvento sugli uomini così conquista anche il cuore della pellicola: le malattie decimano i partecipanti alla spedizione, la giungla li bracca e ogni movimento richiede sforzi immani. Possenti cannoni che abbatterebbero intere città non possono nulla contro le fangose paludi nelle quali si incagliano. Ma, lungi dall'elaborare una ingenua retorica filonaturalistica che esalta la superiorità della natura sull'uomo nel porre il confronto tra i due poli, Herzog sana ogni possibile scissione e mostra l'uomo come elemento naturale pienamente integrato nel cosmo in cui si muove, in questo contesto solo colui che tra gli uomini meglio interpreta il più intrinseco modo d'essere della natura emerge. Costui è Aguirre. Aguirre, la cui furia è specchio di quella degli elementi naturali che lo circondano. Aguirre, che ferino si muove come un pericoloso predatore.


Unità e violenza del cosmo


Così iniziamo ad avvicinarci al cuore tematico del film. Non esistono molteplici regni ontici nella visione herzoghiana, ma un unico cosmo che abbraccia l'intero dell'esistente: l'uomo è tanto animale quanto lo è un maiale, tanto partecipa alla natura quanto un torrente. In modo molto più conradiano che vichiano Herzog disegna la foresta come luogo primitivo, luogo in cui l'imperfetta creazione non è ancora completa, quasi come un brodo primordiale nel quale ogni elemento culturale è velleità, prodotto alienante che allontana l'uomo da se stesso, e viene a perire infrangendosi contro la bruta e spietata violenza della natura. Allora l'unica dicotomia che si crea è in seno al genere umano: l'uomo rivolgendosi verso se stesso può o identificarsi con i propri costrutti, artifici e feticci che sottopone al termine "cultura" o divenire ciò che già è, animale tra gli animali. Nel profondo della foresta amazzonica la cultura soccombe: prodotti materiali come cannoni si rivelano inutili, la pompa dei palazzi reali è pletorica e ridicola, i culti religiosi si rivelano essere camuffamenti dell'impresa di colonizzazione - l'indio che cerca di ascoltare la parola di Dio accostando all'orecchio la Bibbia viene sgozzato per la sua blasfemia, parcere subiectis et debellare superbos.
Aguirre non ha dio e lo dichiarerà: "Prete, vedi di pregare altrimenti il tuo dio te la farà pagare cara". Egli non appartiene ad una entità ultraterrena perché partecipa solo della totalità dell'elemento naturale, egli è artefice di giochi politici nella misura in cui può così appagare il suo abissale istinto, egli usa i cannoni per far valere la legge del più forte. In questo modo, il traditore Aguirre si fa gioco di tutti gli aspetti della cultura umana rivoltandoli contro se stessi e in questa flessione emergono "l'ostilità, il caos, l'omicidio" come comuni denominatori di un universo che non conosce armonia, di una natura che non si lascia conquistare, ma ingloba, ipnotizza o annienta.


Il "folle" Aguirre


Aguirre è specchio di tale mondo e in questa sua ri-flessione amplifica l'incomprensibile oscurità della giungla divenendo un personaggio indecifrabile. Così anche la sua follia è la medesima della natura che lo circonda: un'insaziabile brama di sopraffazione, un'aspirazione al dominio che non si appaga sino all'annichilimento di ogni opposizione. Ma questa follia di Aguirre è solo il lato oscuro ed originario di una cultura onnivora ed imperialista che nel suo tentativo di inglobare tutto quello che ritiene estraneo ragiona per metonimia e sineddoche: la presenza di una collana d'oro è segno che l'Eldorado esiste, la bibbia in quanto parola di Dio testimonia l'esistenza di Dio.
Aguirre è un insaziabile Riccardo III, le cui brame puntano oltre l'umanamente raggiungibile. È, infatti, necessario il totale annientamento della spedizione che lo accompagna, la morte di ogni cultura, la fine di ogni vita che lo circonda in favore del dilagare dell'elemento naturale che arriva ad invadere anche la zattera su cui si trova per vederlo tra cadaveri e scimmie, solo e in piedi, a dominare il suo regno di morte dopo aver pronunciato un ultimo monologo:
"Quando avremo raggiunto il mare costruiremo una nave più grande e dirigeremo la prua a settentrione e strapperemo Trinidad alla corona di Spagna. Poi, raggiungeremo anche il Messico e lo strapperemo a Cortez. Sarà un altro grande tradimento. Tutta la spagna cadrà in mano nostra. Pezzo a pezzo costruiremo la storia come altri costruiscono uno spettacolo. Io, il furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò con lei la dinastia più pura che abbia mai regnato sulla terra, noi due insieme regneremo su tutto questo continente. Resisteremo. Sono il furore di Dio e Dio è con me."

Aguirre parla al plurale, ma tutti i suoi compagni sono morti, fottutamente morti. La figlia è caduta esangue tra le sue braccia, ma i sui progetti di grandezza ignorano l'accidente del morire perché oramai è nell'originale eternità dell'elemento naturale che assume i tratti del divino. I suoi sogni di tradimento vogliono eguagliare l'immensità della natura, un vanitas vanitatum agli occhi della civiltà. Ma la civiltà per lui non è altro che uno spettacolo da allestire, ancora una volta si rivela essere un artificio da mettere a nudo, un giocattolo da smontare e ricostruire. Ecco il folle che declama il vero!
Così lo sguardo fenomenologico di Herzog sembra volgersi verso il mondo per la prima volta, privo di giudizi precostrutti, cercando di aderire sempre più alla visione "altra" del personaggio dominante, uno tra i tanti "folli", che presenterà nel corso della sua lunga carriera di regista, tutti accomunati da un concetto di eroismo sui generis. Infatti, l'eroe herzoghiano vuole fortemente un qualcosa di irraggiungibile, impossibile addirittura e la sua brama non trova posa e nel cercare di raggiungerlo fallirà inevitabilmente perché le sue forze non saranno sufficienti. Si pensi al soldato Stroszek di "Segni di vita" che in un climax ascendente di conflitti arriva a dichiarare guerra al cosmo tutto facendo esplodere delle stelle artificiali nell'oscurità del cielo notturno; del suo progetto la voce narrante dice: "nella sua ribellione aveva iniziato qualcosa di titanico, visto che l'avversario era molto più forte di lui. Così aveva miseramente fallito come tutti i suoi simili." Si pensi a Fitzcarraldo, il sognatore dei sognatori, definito "signore e conquistatore delle cose inutili", ma proprio nell'inutilità -per una società che identifica l'utile col guadagno- del sogno cui vuole dar vita risiede la grandezza della sua impresa. In un rovesciamento, quasi nietzschiano, dei valori proprio in questa inutilità risiede il bene più necessario, sebbene mai attuale. Si rivela l'impossibilità dell'eroe herzoghiano di essere contemporaneo di se stesso. Si pensi anche al Timothy Treadwell di "Grizzly Man" che nel tentativo di oltrepassare il confine tra umano ed animale viene divorato dalla natura, la sua morte è la finale fusione con l'elemento cui già apparteneva. Così anche Aguirre, traditore dei traditori, mira così in alto seguendo un interiore animalesco bisogno tanto da trovarsi infine a capo di un esercito di cadaveri e scimmie. Questa visione dell'eroe rende Herzog il cantore dei grandi perdenti perché nel suo mondo non v'è grandezza senza un'inevitabile tragica sconfitta ed i suoi personaggi inafferrabili ad una mente che non pensa, ma calcola in base ai concetti di "utile" e "guadagno".


Stasi ed estasi della visione


Ma Herzog non si limita e presentarceli narrativamente, bensì in "Aguirre, furore di Dio" elabora un doppio movimento per cui la macchina da presa progressivamente passa a riprendere sempre più costantemente in semi-soggettiva e in soggettiva tanto più avviene la fusione di Aguirre con l'elemento naturale che lo circonda. È un movimento incalzante che spinge lo spettatore nella pelle del personaggio nel crescendo della sua follia. L'intoccabilità del paesaggio, da cui la cultura umana prende le distanze, viene rotta dallo sguardo del "folle" che vi si immerge. E in un'abluzione nella natura circostante l'irreale si concretizza dinanzi ai suoi occhi divenendo elemento esistente del mondo in cui si muove - si pensi a proposito alla scena della barca avvistata in cima ad un albero: uno dei soldati dice che si tratta di una allucinazione mentre Aguirre non esita nel considerarla parte del mondo circostante.
A livello ancora più generale, per l'intera durata della pellicola Herzog rifugge la rappresentazione lineare dell'azione in favore di una straniante successione di quadri, che si intrecciano con l'incarnazione dello spettatore nello sguardo di Aguirre, alternando controcampi e lunghi piani sequenza, in cui il soggetto parlante si trova spesso fuori dall'inquadratura, che resta fissa sul paesaggio. Il risultato di ciò è la dilatazione dei tempi percepiti in favore di un senso di eterna immobilità della visione. Il nascondimento operato dal regista tedesco sottrae per mostrare estaticamente la natura immobile, eterna che dilaga ed occulta ogni azione umana. Tutto ciò conduce al delirio d'onnipotenza della macchina da presa nella scena finale, in cui lo sguardo del regista oggettiva un'immagine irreale che presenta Aguirre attraverso una prospettiva impossibile, completando il processo di immedesimazione ad ogni livello con l'esaltazione del protagonista. Una sequenza di una bellezza rara che chiude il cerchio della pellicola rinviando all'estasi iniziale: la natura che si animava in principio si è impossessata finalmente dello sguardo dello spettatore, del regista e del protagonista. Con il movimento circolare della camera, Aguirre, volto all'orizzonte, viene rinchiuso nel suo cuore di tenebra. Allora, chi sta guardando cosa? Aguirre il paesaggio o è invece l'opposto? In realtà non esistono più punti di vista ma un'estasi del vedere nel trionfo della natura-come-un-tutto, come onnivora prospettiva assoluta.


Conclusioni - l'incubo di Aguirre


Diversi anni prima del "Apocalypse Now" di Coppola il seme della follia strisciava già come un serpente lungo le correnti di un fiume. Con "Aguirre" il regista tedesco Werner Herzog ci consegna un ipnotico incubo che rimane addosso anche al termine della visione e, anche grazie alla "monumentale, epocale" interpretazione di Kinski che impone la sua presenza demoniaca, incanta ed annichilisce lo spettatore. Contrariamente a Kurosawa Akira che cercò di filmare i suoi sogni Herzog ha dato vita al suo nero tormento non semplicemente descrivendo storiograficamente la fallimentare missione di scoperta dell'Eldorado, ma accompagnando Aguirre nel cammino della sua follia fino alla completa realizzazione del suo delirio di tradimento ed annientamento. Herzog, consegnandoci con "Aguirre, furore di Dio" una delle più evocative visioni cinematografiche di tutti i tempi, si impone come il più visionario regista contemporaneo. Austero, ossessivo, sognatore. Attraverso il suo sguardo limpido ci consegna un mondo che vediamo e scopriamo come per la prima volta. D'altro canto un'intera generazione di registi che va Francis Ford Coppola a Terrence Malick è debitrice a questo regista e a questa pellicola che ha raggiunto lo status di "cult movie", tanto apprezzata per il suo spessore quanto chiacchierata per le rocambolesche vicende che hanno condotto alla sua realizzazione. Un film essenziale, paragonabile nella sua potenza visionaria solo ad una manciata di altre opere come "2001: Odissea nello spazio" o il già citato "Apocalypse Now". Devono essere ricordate infine le musiche dei Popol Vuh ed il loro effetto straniante che, come in un sogno coscente, accompagnano lo spettatore nelle scene più liriche, un'esperienza onironautica sottolineata anche dalla fotografia naturale di Thomas Mauch.
Entrare in "Aguirre" equivale a dischiudere un mondo d'incubo ed essere trascinati da Herzog ai confini estremi della regione cinematografica dove la ragione non può più nulla e tutto è pura e semplice meraviglia.


30/08/2011

Cast e credits

cast:
Klaus Kinski, Helena Rojo, Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling, Cecilia Rivera, Daniel Ades, Edward Roland, Alejandro Chavez, Armando Polanah, Alejandro Repullés


regia:
Werner Herzog


titolo originale:
Aguirre, der Zorn Gottes


distribuzione:
Werner Herzog Filmproduktion


durata:
93'


produzione:
Werner Herzog


sceneggiatura:
Werner Herzog


fotografia:
Thomas Mauch


montaggio:
Beate Mainka-Jellinghaus


musiche:
Popol Vuh


Trama
Il capolavoro di Herzog che racconta la lenta discesa di Aguirre nel cuore di tenebra della foresta amazzonica.