Ispiratosi liberamente ai diari di viaggio dell'etnografo tedesco Theodor Koch-Grunberg (1872-1924) e del biologo americano Richard Evans Shultes (1915-2001), il giovane regista colombiano Ciro Guerra compie un viaggio in Amazzonia per narrare la memoria di quelle popolazioni indigene scomparse a causa della brutalità neocolonialista delle aziende alla ricerca di materie prime e allo sfruttamento delle piantagioni di alberi di caucciù per l'estrazione della gomma.
Detto così sembrerebbe l'ennesima pellicola avventurosa e socialmente impegnata, ma nella realtà Guerra crea un'opera che integra elegantemente elementi stilistici affascinanti e contenuti di profondità inusuale. Innanzi tutto la scelta vincente è quella di narrare la vicenda dal punto di vista di un indigeno, Karamakate, ultimo sciamano di una tribù massacrata dai coltivatori bianchi, e dal suo incontro all'inizio del 900 con Theodor (Jan Bijvoet), quando era giovane, e poi con Evans (Brionne Davis) quarant'anni dopo, ormai anziano. Infatti gli interpreti indigeni sono tutti attori non professionisti: Karamakate giovane è Nilbo Torres, un agricoltore indigeno; Karamakate anziano è Antonio Bolivar Salvador, uno dei pochi sopravvissuti degli Ocaina (che è stato anche guida e insegnante della lingua indigena per gli altri attori), testimone vivente di una cultura perduta in un'osmosi della realtà vissuta all'interno della finzione narrata; Miguel Dionisio Ramos, che intrepreta Manduca, l'amico indio di Theo, è un giovane della comunità amazzonica dei Tikuna.
In un montaggio alternato s'incrociano le due linee narrative in modo organico, creando un unico intreccio narrativo, dove il tempo è dettato dalla ripetizione degli episodi in momenti storici diversi. Così, ad esempio, si può assistere all'interessante sequenza della missione francescana immersa nella giungla sulle rive del grande fiume, dove nel primo incontro con Theo, Manduca e Karamakate si osservano gli effetti della colonizzazione culturale e religiosa dei giovani indios strappati alle loro famiglie a cui viene imposto di parlare solo spagnolo e la pratica di un cattolicesimo esclusivo, con la scusa che la loro lingua sia quella "del diavolo" e salvati dal cannibalismo e dal paganesimo. Ritornando sullo stesso luogo con Evans, l'anziano Karamakate vede trasformata la missione in un luogo infernale, dove gli indigeni sono schiavi di un occidentale che si proclama loro messia, in un caotico miscuglio tra cultura originale e cattolica, in una comunità delirante e selvaggia, in cui Karamakate vede la realizzazione del peggio di entrambe le tradizioni.
Lo scontro culturale tra la visione panteistica delle tribù amazzoniche, in armonia con la natura e il mondo in cui vivono, come creature in equilibrio con la flora e la fauna, e l'uomo bianco, con la sprezzante distruttività per ciò che non comprende, dove la società occidentale lavora sia sullo sfruttamento del territorio sia sull'assimilazione degli indios o della loro eliminazione, è il tema centrale della pellicola.
Certo però che altri temi sottesi si presentano allo spettatore alla visione di "El abrazo de la serpiente". Il primo è quello della memoria perduta (o distrutta) di interi popoli o di un uomo. Se nell'incipit assistiamo al giovane Karamakate che vive solitario nella foresta e al suo incontro con Theo, ammalato di malaria e alla ricerca della sacra pianta della yakruna che potrebbe salvarlo, subito dopo i titoli di testa vediamo il vecchio Karamakate che riceve Evans, arrivato sulle tracce di Theo per cercare la stessa pianta. Se il giovane rappresenta la memoria perduta di un popolo, testimone ultimo, depositario di un antico sapere, il vecchio non ha più memoria di se stesso, intento a disegnare graffiti sulla roccia a rappresentare immagini perdute nel tempo. Se per i due occidentali la ricerca della yakruna è la spinta per uno di salvarsi dalla morte certa e per l'altro trovare una pianta per sfruttare il caucciù, per Karamakate diventa un viaggio da mentore, di guida spirituale, di trasmissione di sapere nei confronti del mondo occidentale come ultima occasione perché la cultura del suo popolo non venga perduta per sempre. E se il primo viaggio vede tra i due protagonisti la presenza di Manduca, indios occidentalizzatosi per salvarsi e per "insegnare" all'uomo bianco le proprie credenze - con uno scontro continuo tra i due e Karamakate che li vede con disprezzo e rabbia - il secondo diventa una missione esclusiva di trasmissione della presa di coscienza di Evans della conoscenza mistica di Karamakate.
E la memoria si intreccia frequentemente con il mondo dei sogni (il secondo tema sotteso), terreno di contatto con il regno degli dei, rappresentato dallo spirito del giaguaro e dell'anaconda, in una visione onirica e onnisciente, dove il corpo dell'uomo è solo un elemento, uno dei tanti, all'interno di una rappresentazione della natura che non è solo genius loci, ma soprattutto un vero e proprio infiniti mundi, dove tutto scorre, si ripete nel tempo, si incista nella materia e nello spirito della foresta e del fiume. E l'utilizzo delle droghe estratte dalle piante della foresta sono lo strumento di accesso a questo mondo che va al di là dello spazio fisico e del tempo (come nella sequenza del prefinale onirica e psichedelica che vive Evans dopo aver bevuto un composto di yakruna).
La tematica è sostanziata spesso da Guerra con riprese continue della foresta, del fiume che s'insinua come un lungo ed enorme serpente, doppio o multiplo come le sponde del fiume: esso è sia il "serpente" umano che s'insinua nella società tribale per cibarsene, sia l'anima delle acque che attraversano la foresta. Anche se "l'abbraccio" mortale è fornito dalla sequenza di un dettaglio di una femmina di serpente che sta figliando e poi di un giovane serpente che si avvicina nell'acqua al vecchio Karamakate, annunciando l'arrivo di Evans su una piroga lungo il fiume.
In una fotografia di David Gallego in bianco e nero di estremo fascino visivo con gradazioni di diverse intensità di grigio, Guerra riprende la natura con la macchina da presa statica non come selvaggia e caotica, ma come un organismo compatto, geometrico, ordinato, con riprese dall'alto del fiume, in campo lungo delle montagne sacre nel finale e in campo medio della foresta durante tutto il film, rendendo la visione di "El abrazo de la serpiente", oltre che un interessante viaggio all'interno di culture perdute della profonda Amazzonia, un'esperienza che abbraccia totalmente la mente e l'immaginario dello spettatore.
Terzo film dell'autore colombiano - premiato con l'Art Cinéma sezione Quinzaine des Réalisateurs nel 2015 al Festival di Cannes e candidato agli Oscar di quest'anno come miglior film straniero - "El abrazo de la serpiente" è un'opera che incolla lo spettatore alla poltrona dalla prima all'ultima inquadratura, senza che si possa distogliere lo sguardo e la mente dalle immagini che scorrono sullo schermo, ipnotizzati dalla bellezza della visione di una storia appassionante e drammatica.
cast:
Nilbio Torres, Jan Bijvoet, Antonio Bolivar, Brionne Davis, Miguel Dioniso Ramos
regia:
Ciro Guerra
distribuzione:
Movie Inspired
durata:
125'
produzione:
Ciudad Lunar Producciones, Buffalo Films, Buffalo Producciones, MC Producciones, Nortesur Produccion
sceneggiatura:
Ciro Guerra e Jacques Toulemonde Vidal
fotografia:
David Gallego
scenografie:
Ramses Benjumea, Angélica Perea e Alejandro Franco
montaggio:
Etienne Boussac
costumi:
Catherine Rodríguez
musiche:
Nascuy Linares
Karamakate, un potente sciamano dell’Amazzonia, ultimo sopravvissuto del suo popolo, vive nella giungla più profonda, in isolamento volontario. La sua vita svuotata è sconvolta dall’arrivo di Evans, un botanico americano alla ricerca della yakruna, una pianta sacra dai grandi poteri, in grado di insegnare a sognare. Insieme si imbarcano in un viaggio nel cuore dell’Amazzonia, durante il quale passato, presente e futuro si intrecciano, e durante il quale Karamakate lentamente inizia a riconquistare i suoi ricordi perduti.