A dispetto delle apparenze, "A Quiet Place - Un posto tranquillo" non è l'esordio alla regia di John Krasinski. Conosciuto dai più come interprete di film indipendenti ("
American Life", "
Promise Land") e per qualche incursione non molto fortunata nelle produzioni mainstream ("Sotto il cielo delle Hawaii"), Krasinski aveva al suo attivo prima di quest'ultima ben due direzione di lungometraggi: "Brief Interviews with Hideous Men", realizzata nel 2008 e basata sull'omonimo libro di racconti di David Forster Wallace, a cui seguì nel 2016 "The Hollars". Distanti dal terzo per genere e tipologia produttiva, i film appena menzionati sono da vedere per non minimizzare l'apporto di Krasinski rispetto a un film di genere come "A Quiet Place", apparentemente risolto nella perfetta sincronia del meccanismo che lo sostiene e invece frutto di una visione personale che si è sviluppata attraverso le esperienze dietro e davanti alla mdp. Nati in contesto minimale ma culturalmente elevati (dopo essersi diplomato, Krasinski studia drammaturgia alla Brown University, una delle università americane più prestigiose e selettive), i primi due film mettono al centro della scena i rapporti interpersonali e le dinamiche di gruppo, facendo dei dialoghi e della capacità degli attori di farsene carico il loro punto di forza, evidenziando la predilezione per i toni sfumati e sommessi, gli stessi che hanno caratterizzato le interpretazioni di Krasinski come attore. Tra queste ultime, è utile tenere in mente quella prestata nel film di Cameron Crowe, dove Krasinski in un ruolo privo o quasi di parole, è un padre di famiglia che riesce a salvare il proprio matrimonio con la forza della sua rassicurante presenza.
Nella stessa condizione lo ritroviamo insieme a moglie e figli in "A Quiet Place", poiché il silenzio è l'unico modo per evitare la violenza omicida delle mostruose creature aliene, pronte a scagliarsi su qualsiasi fonte di suoni o di rumore per eliminarne l'origine. Considerato che, da copione, la trama racconta gli espedienti messi in atto dai protagonisti per riuscire a sopravvivere alla morte e a sconfiggere gli (apparentemente invincibili) avversari alla fine di un drammatico e articolato confronto, a fare la differenza doveva essere la coerenza con la quale il film avrebbe tenuto fede alle sue premesse e in particolare a rendere senza forzature né compromessi un mondo dominato da forme di comunicazione alternative.
Detto che a parte due momenti in cui lo svolgersi degli accadimenti sembra piegarsi alla volontà di un demiurgo esterno alla vicenda - e ci riferiamo, per esempio, alla sequenza del parto naturale di Evelyn, la moglie di Lee interpretata da Emily Blunt - le cose che colpiscono riguardano la regia di Krasinski, abile nel perseguire la propria poetica anche a fronte di un contenitore poco propenso a considerare i personaggi al di là della loro funzione narrativa e qui invece chiamati dal regista ad assumere una posizione autonoma rispetto alla contingenza degli eventi. Si pensi, ad esempio, al rapporto tra padre e figlia e al modo in cui l'irrisolto che ne scandisce la relazione risulta determinante per il cambio di rotta degli eventi in corso, oppure a quanto conti, per la resa emotiva dei personaggi, il fatto di aver scelto la Blunt, nella vita reale moglie di Krasinski e madre dei suoi figli. Se la vicenda del sodalizio familiare alle prese con un lutto da elaborare e superare è l'ennesima variazione di quelle già raccontate nei film succitati, al regista non manca di certo il coraggio di rischiare, mettendosi in discussione con un plot che stravolge alcuni dei punti fermi della sua cinematografia. A cominciare dall'elemento spaziale, sdoganato dagli appartamenti angusti e borghesi che erano stati teatro delle prime rappresentazioni, ora sostituiti dal loro esatto contrario, ovvero il paesaggio rurale e l'America
redneck. E, vale la pena ribadirlo, dal venir meno delle prerogative del linguaggio parlato, sostituito in tutto e per tutto dal
body language delle figure umane.
Tra conferme e novità, Krasinski, infine, se la cava egregiamente anche sul piano della cinefilia, dimostrando di saper fare suoi, reinterpretandoli, i riferimenti di genere utilizzati per l'occasione. Su tutti, manco a dirlo, l'immancabile "
Alien", ripreso non solo nel
modus operandi della bestia, ma pure nella costruzione di scene come quella dell'epilogo in cui davvero sembra di trovarsi nel film di Scott. E ancora "Pitch Black" - con analogie più o meno esplicite comuni ad altri
B-movie quali "Tremors" (1990) e "Screamers" (1995) - in cui il
casus belli (lì era la luce a scatenare l'intervento dei mostri, qui i suoni) e i rapporti di causa-effetto funzionano alla stessa maniera e soprattutto con la stessa efficacia.
Tra le sorprese più belle di questa stagione, "A Quiet Place" è un gioiello da gustare nel buio della sala.