Ancora una volta, una rivoluzione interiore, una lotta intestina contro se stessi. Con altre chiavi di lettura, nuovi toni e differenti ambientazioni, Silvio Soldini prosegue nel suo racconto di uomini e donne incastrati in una quotidianità che non è la loro. Essi non vi si riconoscono, ne sono più che altro succubi, per convenienza economica, sociale, estetica. Il mondo circostante, per i protagonisti del cinema di Soldini, diventa puntualmente uno spazio irraggiungibile; che la distanza venga messa in scena in chiave di commedia o di dramma, il senso però resta il medesimo: l'atto più coraggioso che mai si potrebbe compiere è quello di ammettere a se stessi di non vivere in modo soddisfacente. E così Camilla, avvocato di successo a Milano, quarant'anni e già una vita personale devastata, si ritrova a fare i conti con il senso di un'esistenza ipocrita. Causa involontariamente un incidente, un immigrato clandestino muore cadendo dal motorino, l'altro scappa. Lei ha due missioni: rintracciare il fuggitivo e dare un'identità a quel corpo morto rimasto sulla strada e finito all'obitorio.
La Milano di Soldini, che abbonda di riprese notturne e luci fasulle, è il teatro di posa ideale per questa vicenda, fatta di bugie, compromessi e insoddisfazioni. C'è un costante lavoro del regista lombardo sull'evoluzione dei suoi personaggi e questa caratteristica non manca neanche stavolta. Kasia Smutniak, algida e trattenuta, ha l'approccio giusto per vestire i panni di Camilla, una professionista condannata a spogliarsi di ogni emozione per sopravvivere. Tenersi occupati, aggredire la quotidianità, sommare un impegno agli altri sono gli espedienti con cui è possibile non sentire, non turbarsi. La prima parte del film, in cui riconosciamo il Soldini più ispirato del passato, è riuscita, in questo senso. È una sceneggiatura accorta, quella che permette di suggerire un senso di malessere sottotraccia, quello di una donna, appunto, prigioniera di un ruolo in cui fatica a riconoscersi ogni giorno di più.
C'è un evidente problema, purtroppo, nella seconda parte dell'opera, allorché Camilla conosce Bruno, il direttore dell'obitorio, e inizia grazie all'aiuto di quest'uomo saggio e calmo una sorta di presa di coscienza, un tentativo di risalita dagli abissi dell'anaffettività in cui era precipitata. In questo senso, "3/19" si smarrisce in una retorica e un moralismo che prendono il posto della riflessione e della morale. La regia diventa invadente, ogni spunto di trama assume connotati simbolici esagerati e il film perde il suo afflato umano. Era un problema che avevamo notato anche negli ultimi titoli della filmografia di Soldini, una volontà di sottolineare le svolte prese dai protagonisti, un modo di manovrarli in scena come strumenti per giungere a una conclusione a tema. Anche se Francesco Colella (che interpreta Bruno) è bravissimo con il suo registro interpretativo basato sull'understatement, l'incontro tra i due è il momento più farraginoso dei 120 minuti.
Senza volerci avventurare in paragoni impropri, ma approfittando di una recente revisione e recensione, il rapporto tra i due può far tornare alla memoria esempi molto alti di incontri che cambiano il percorso cinematografico di certi uomini e certe donne. Scrivevamo in "Europa '51" del fatto che il cugino Andrea avesse dato alla protagonista Irene una ragione per cambiare, una specie di supporto al cambio di sguardo sul mondo. Anche qui il meccanismo è lo stesso, invero abusato in molto cinema italiano degli ultimi 25 anni. Ma, a differenza del capolavoro di Roberto Rossellini, qui Camilla non trae un reale vantaggio dalla nuova conoscenza, perché la revisione del suo presente è tutta esteriore, è fatta di cliché che Soldini non riesce (o non vuole) evitare. Non c'è un percorso di redenzione, perché non è ciò che le serve. Ma neanche di effettiva riflessione. Il racconto diventa un pamphlet a tema, che verte tutto attorno alla riscoperta del senso della vita, in contrapposizione con la leggerezza e provvisorietà del successo professionale, degli affetti trascurati, di relazioni sentimentali che non costituiscono un vero impegno. Persino la stessa metropoli appare, una volta che il film vira su questi toni, una sorta di avversario da ritrarre senza i chiaroscuri del principio. E dunque la presenza di Milano è parzialmente svuotata di senso. "3/19" sta per il terzo morto non identificato dell'anno solare 2019: anche qui, simbologia e allegorie troppo facili. In primo luogo la sottolineatura di un anno pre-pandemia, in cui il terzo morto pare un evento catastrofico, quando pochi mesi dopo si dovranno fare i conti con vittime a decine, a centinaia. E poi l'attribuzione del cadavere all'identità di un clandestino in fuga, ulteriore sottolineatura del vuoto di significato della vita di Camilla, in contrapposizione. Come in "Cuore sacro" di Ferzan Ozpetek, la conversione morale non riesce alla fine, perché la scrittura del personaggio interpretato da Smutniak non ne sa cogliere in profondità la connessione con la realtà. Soldini ha in parte archiviato una delle sue doti più significative: quella di saper dare al suo cinema la parvenza di racconto universale, indipendentemente dall'identikit dei personaggi messi in scena di volta in volta.
cast:
Kasia Smutniak, Francesco Colella, Caterina Forza, Paolo Mazzarelli, Martina De Santis
regia:
Silvio Soldini
distribuzione:
Vision Distribution
durata:
120'
produzione:
Lumière & Co. , Vision Distribution
sceneggiatura:
Doriana Leondeff, Davide Lantieri, Silvio Soldini
fotografia:
Matteo Cocco
montaggio:
Giorgio Garini, Carlotta Cristiani