Dopo la felice maturità narrativa e stilistica dimostrata con "La finestra di fronte", Ferzan Ozpetek resta invischiato in quello che forse è il suo film più personale, ma anche il meno riuscito. Punta molto in alto il regista italo-turco: raccontare un percorso intimo di crescita, il cambiamento radicale di un punto di vista, la ricerca di una fede spirituale in grado di dare un senso all'esistenza. Ma l'evoluzione interiore della protagonista, da manager senza scrupoli a candidata alla santità, non trova il necessario supporto nella sceneggiatura, ridondante somma di luoghi comuni, a partire dalla contrapposizione facile, e fasulla, tra aridità della ricchezza e misticismo della povertà. Ma tutto suona falso: il rapporto con la misteriosa bambina, l'antitesi tra zia buona e zia cattiva, la laicità di un prete che pare uscito da una fiction televisiva, la prestanza fisica di un simil-barbone con ambizioni cristologiche, la sudditanza di una segretaria che passa con noncuranza dalla grande impresa alla mensa di carità.
L'enfasi dei dialoghi sembra voler sempre racchiudere chissà quale significato recondito, quando il più delle volte, dietro all'effetto delle parole affiancate con calcolo, si celano imperdonabili banalità. Particolarmente brutto il monologo della pur volonterosa Michela Cescon, e con il peso dell'indottrinamento la maggior parte delle altre battute. Anche la messa in scena non sempre convince. Ozpetek conosce la grammatica del cinema e sa come coinvolgere il pubblico; si affida, nella luce di Gianfilippo Corticelli, a toni crepuscolari con squarci dorati, ma spesso si dilunga senza spessore e lascia che la musica invadente di Andrea Guerra forzi il sorgere delle emozioni. Così come non riesce mai a rendere credibile la descrizione della "nuova povertà", i figli dell'euro che, pur senza essere barboni, non ce la fanno a far quadrare il bilancio mensile.
Ad avere il sopravvento, un po' come nell'affresco un po' naif della comunità omosessuale ne "Le fate ignoranti", è il tratteggio stereotipato: buoni propositi, solidarietà e un pizzico di tapineria a buon mercato. Anche il punto di arrivo lascia insoddisfatti, incerto nel dare sostanza a una fede in bilico tra santino oratoriale e totale laicità, comunque fondata sull'ennesimo senso di colpa. Ogni tanto è bello esagerare, come ci ricorda il personaggio della psicologa, uno dei pochi riusciti e intensi pur nella sua brevità, ma il regista conclude la via crucis della protagonista puntando sulla sensazione - la sequenza "francescana" nella metropolitana - senza che l'ostentato eccesso arrivi a comunicare granché. Tra l'altro, dimenticando per strada molti personaggi e parecchi spunti (ma pare che il montaggio sia stato frutto di numerosi ripensamenti).
Gli attori sono la parte migliore della pellicola, dall'intensa Barbora Bobulova al carisma di Lisa Gastoni, anche se dal suo ritorno sulle scene dopo venticinque anni ci si aspettava comunque di più (anche lei vittima di scorciature in sede di montaggio). Efficace Erica Blanc, un po' meno Camille Dugay Comencini, ma forse dipende dalle implicazioni metafisiche del ruolo che interpreta. Al riaccendersi delle luci in sala, tra palpebre calate, qualche punto interrogativo e sguardi perlopiù annoiati, l'atmosfera che si respira è di post-pasticcio d'autore. Lodevoli le intenzioni, un guazzabuglio il risultato.
(in collaborazione con Gli Spietati)
cast:
Massimo Poggio, Erica Blanc, Barbora Bobulova, Andrea Di Stefano, Lisa Gastoni, Camille Dugay Comencini, Michela Cescon
regia:
Ferzan Ozpetek
distribuzione:
Medusa
durata:
117'
produzione:
Tilde Corsi, Gianni Romoli
sceneggiatura:
Gianni Romoli, Ferzan Ozpetek
fotografia:
Gianfilippo Corticelli
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