Così troviamo scritto sul dizionario: "
cult movie è un'espressione utilizzata per indicare un film di culto, cioè un film che, spesso al di là dei mezzi economici impiegati per produrlo e nonostante il suo successo o insuccesso commerciale, finisce per diventare col tempo un oggetto di culto per l'insieme degli spettatori o, più spesso, per una determinata cerchia di affezionati". Ovvero: "1997 - Fuga da New York".
Che bei tempi quando i film
cult nascevano e si diffondevano un po' per caso, un po' per il passaparola del pubblico. Oggi, da "
Donnie Darko" a "Sin City" e via dicendo, è qualcun altro a scegliere per noi, ma così non fu per il film di John Carpenter datato 1981, all'epoca un successo appena discreto (medesima sorte toccherà a "Grosso guaio a Chinatown", altra pellicola rispolverata col passare del tempo), quasi insufficiente per rientrare nel budget. Eppure le avventure di Jena (in originale "Snake", d'altronde sul corpo ha tatuato un serpente) Plisken hanno influenzato tanti giovani cineasti, dato il via ad un intero filone di pellicole fanta-urbane che imperversano ancora oggi sul grande schermo (l'ultimo arrivato è "
Doomsday" di Neil Marshall), segnato la gioventù di moltissimi appassionati di cinema. Merito del tocco di Carpenter (all'epoca reduce del successo di due horror come "The Fog" e "Halloween"), di certo non un mestierante come tanti, ma un cinefilo D.O.C., assolutamente non snob, che si diverte a mescolare amorevolmente tutto ciò che gli passa per la testa: fantascienza, western, noir, metafora politica. Ma il regista americano va oltre i generi, spinge tutto all'estremo.
"Escape From New York" è anche il film che definisce in maniera esplicita (a partire dalla locandina americana con la statua della libertà ridotta ad un cumulo di macerie) e definitiva, il suo credo politico. L'
incipit del film in cui una voce narrante ci informa di un terzo conflitto mondiale tuttora in atto è profetico e allarmante: il governo è violento e fascista, criminali,
freaks e "diversi" sono relegati ai margini della società, rinchiusi nel maxi carcere conosciuto un tempo con il nome di New York City. Il popolo non ha più libertà, il potere è nelle mani di un presidente esaltato e despota (tutti questi elementi verranno ulteriormente amplificati nel semiparodico sequel del 1996, "Fuga da Los Angeles"): la soluzione non è né la rivoluzione di cui vuole farsi propugnatore il violento "Duca" (Isaac Hayes), né l'anarchia degli abitanti della città-prigione, e di certo non è la repressione dei potenti. No, Carpenter sta assolutamente dalla parte di Jena, un nichilista (imparentato da vicino con il Napoleone Wilson di "Distretto 13 - Le brigate della morte"), un anti-eroe, un cowboy solitario e disilluso che non crede più in nulla, se non in sé stesso, nell'istinto primordiale della sopravvivenza (perché combattere per la propria vita altrimenti?). Carpenter non ha più fiducia nel genere umano: che lo condanni all'apocalisse (da "Il signore del male" a "Il seme della follia") o alla regressione tecno-culturale (il già citato sequel "Escape from L.A."), poco cambia. Il destino a cui condanna i suoi personaggi è il medesimo, sempre crudele, spesso beffardo. Non affezionatevi perciò alle facce da schiaffi di "Fuga da New York", ognuna di esse deve scontare qualche peccato: "Mente" (Harry Dean Stanton) e la sua donna Maggie (Adrienne Barbeau), la propria ignavia e debolezza, "il Tassista" (Ernest Borgnine) la semplicità con cui affronta il mondo, così come il "Duca" e i suoi uomini, sconfitti dalla rozzezza delle proprie posizioni, e ovviamente in cima alla torre ci sono i "buoni", il presidente degli Stati Uniti, guerrafondaio e folle (lo interpreta un grande Donald Pleasance) e la sua cricca vengono giustamente beffati da Jena, che nega loro i nastri tanto ambiti.
Carpenter mette in scena questi temi, questi personaggi, con ironia e consapevolezza: volti, battute ("
chiamami Jena"), si stampano nella memoria collettiva con una semplicità che appartiene solo ai classici. Magistrale creatore di scenari urbani e degradati, Carpenter sa creare tensione con un pugno di inquadrature (l'attacco dei cannibali fa paura sul serio), sfrutta al meglio le risorse (limitate) che ha a disposizione (il finale
action con il ponte disseminato di mine) e compone una delle sue colonne sonore elettroniche più memorabili, insomma un vero artigiano della settima arte.
"1997 - Fuga da New York" è un giocattolone avvincente e inimitabile che sarebbe ingiusto continuare a sottovalutare.