Venezia 66: tra scelte coraggiose, tanto horror e un pizzico di glamour, la Mostra del cinema tenta di fronteggiare la crisi rinnovandosi
Rec 2 (Fuori Concorso)
Visto il successo del primo episodio, perché non replicare? Jaume Balaguerò e Paco Plaza tornano nel temibile palazzo infestato da zombie-posseduti, e fanno partire la vicenda esattamente da dove finiva la prima, con la povera conduttrice tv Angela Vidal inghiottita nell'oscurità e trascinata via dal fantasma, o dalla personificazione nel corpo di una bambina, di un antico demone. Questa volta si sdoppia (ad un tratto si triplica) la prospettiva. Ci sono le immagini girate da un gruppo di forze speciali entrate nel palazzo per vederci chiaro, e quelle di un trio di malcapitati ragazzini infiltrati nell'edificio per burla. Più botti, più effetti gore, più tensione (almeno nella prima parte), e maggiore insistenza nella critica anticlericale. Romero si fonde con "L'esorcista" di Friedkin, con esiti non proprio soddisfacenti, e non c'è una sola idea originale. La suspense spesso sfocia (volontariamente?) nella risata, e il finale preannuncia già un terzo episodio. (5/10)
Metropia (Settimana della critica)
Tarik Saleh, fondatore della casa di produzione svedese Atmo, con la quale ha realizzato oltre trenta cortometraggi d'animazione, ha senza dubbio un grande talento visivo. Il suo stile mescola animazione 2D, 3D e Cut Out, un affascinante mix tra antico e moderno. Per il suo esordio nel lungometraggio, "Metropia", si avvale di un eclettico cast di voci, capitanato da Vincent Gallo e Udo Kier, e immagina un mondo distopico a metà tra Kafka (la grigia routine degli impiegati, le situazioni alienanti), Orwell (il grande fratello) e il primo Lynch (le ambientazioni monocromatiche e spettrali). Tutte cose viste e straviste, riproposte senza molta originalità, che faticano ad attirare la partecipazione del pubblico. Se a ciò aggiungiamo una sceneggiatura piuttosto farraginosa e meccanica, la sensazione è di trovarsi davanti ad un'opera prima promettente ma, in definitiva, incompiuta. (6/10)
The Road (In concorso)
Che l'australiano John Hillcoat avesse talento lo si poteva intuire già dal brillante esordio con "The Proposition". Qui è alle prese con un romanzo capolavoro di Cormac McCharthy, ambientato in un futuro imprecisato in cui la terra si sta autodistruggendo (terremoti, foreste che bruciano all'improvviso, il sole oscurato), e dove un padre e il suo figlioletto (ambedue senza nome) cercano di sopravvivere, camminando verso un'improbabile speranza nel sud del paese. Premesso che il film non è esente da qualche difettuccio (soprattutto nel finale), si tratta comunque di una delle poche sorprese dell'ultima Mostra del cinema. Hillcoat affronta l'apocalisse come se si trattasse di un western, apparentandosi con un altro film visto negli ultimi anni a Venezia, egualmente sottostimato, ovvero "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" (non solo le musiche, anche qui composte da Nick Cave e Warren Ellis, ma anche lo sguardo rivolto alla natura che circonda i protagonisti, impassibile davanti alle loro difficoltà). Lucido, disperato e interpretato da un immenso Viggo Mortensen (ma anche Robert Duvall, sebbene compaia per cinque minuti, non si scorda), "The Road" è pervaso da una struggente sensazione di fatalità e pessimismo, in linea con il pensiero del grande autore di "Non è un paese per vecchi". (8/10)
Life During Wartime (In concorso)
Todd Solondz riprende in mano i personaggi del suo "Happiness" (facendoli interpretare però da attori diversi) mostrandoci cos'è stato delle loro vite dopo dieci lunghi anni. Tutto ruota attorno alla scombiccherata famiglia Maplewood. Il piccolo Timmy non è al corrente del fatto che il padre è in carcere per pedofilia, e sta per tornare a piede libero, la madre Tish cerca di rifarsi una vita dopo che aver conosciuto il più anziano Harvey, mentre sua sorella Joy continua ad essere ossessionata dal fantasma del molestatore Andy. Di cattiveria ce n'è, di dialoghi pungenti pure (bellissimo quello del bambino sull'11 settembre e i terroristi) ma rispetto al prototipo gli aspetti più spinosi sono smussati. I tempi sono cambiati, e se nel '98 "Happiness" sembrava un pugno nello stomaco, oggi di famiglie allo sfascio (da "American Beauty" sino ad "Election" ecc) ne abbiamo viste parecchie, persino in brillanti serial tv come "Six Feet Under". A chiudere le fila della vicenda un'importante lezione morale: per trovare la pace non dobbiamo perdonare solo noi stessi, ma anche chi ci sta attorno. (6,5/10)
Lourdes (In concorso)
Una piccola graditissima sorpresa quella di Jessica Hausner. Lo sguardo che la regista austriaca rivolge alla famosa meta di tanti fedeli in giro per il mondo, non è né turistico né dissacratorio. Certo, il film è cosparso di una lieve, pungente, ironia (come quando vengono descritti i rituali di Lourdes, o viene consegnato il premio "al pellegrino dell'anno"), ma l'ottica della Hausner è soprattutto laica. Un po' come quella della stranita protagonista, nemmeno così credente, che si ritrova improvvisamente "miracolata". E il film si interroga sulle contraddizioni e la labilità della condizione umana (concludendosi sulle note di "Felicità" di Al Bano e Romina), ricordandoci che in fondo siamo solo pedine all'interno di un "gioco" che non potremmo mai comprendere a fondo. (7,5/10)
La Horde (Giornate degli autori)
L'horror francese conferma il suo buon stato di salute con l'esordio alla regia del duo Dahan/Rocher. Un gruppo di sbirri duri e corrotti vuole vendicare la morte di un collega e si infiltra in un imponente palazzo per dare una "lezione" alla banda che l'ha ammazzato. Si troveranno ad unire le forze contro un gruppo di feroci zombie che sta invadendo la città. Con piglio cinefilo i registi mescolano western, Carpenter ("Distretto 13") e post moderno (il Rodriguez di "Dal tramonto all'alba). Parte come un noir e continua come un violento horror. Dahan e Rocher non cercano le provocazioni visive di "Martyrs" o "Frontiers", ma il puro divertimento, e almeno per metà il film funziona alla grande e ha un gran tiro. Poi però l'eccessiva autoconsapevolezza rischia di far scadere tutto nella farsa (i "buoni" che menano gli zombie a suon di calci in faccia) aggiungendo qualche macchietta non richiesta (il reduce di guerra mezzo matto) e il finale, oltre ad essere frettoloso, conferisce al tutto un'impronta seriosa e giustizialista non richiesta. (6/10)
The Informant! (Fuori Concorso)
All'apparenza un Soderbergh più disimpegnato, "The Informant!", oltre ad essere il ritratto enigmatico e divertito di un personaggio fuori dalla norma e disadattato (un sorprendente Matt Damon) riflette anche sui fondamenti e i lati oscuri dell'american dream (Damon collabora con l'FBI ma poi è abbandonato a sè stesso...) e sull'influenza (positiva o negativa?) che i media hanno sulla personalità delle persone (Whitacre-Damon si difende utilizzando come esempi i libri di Chrichton o i film con Tom Cruise). Sarebbe un peccato svelare troppo della complessa sceneggiatura: diciamo solo che il film cuoce a fuoco lento, molto parlato e "statico", si srotola però piano piano, rivelando sorprese e colpi di scena inaspettati. Un film d"intrattenimento" molto più raffinato della media. Peccato non fosse in concorso. (7/10)
Capitalism: A Love Story (In concorso)
Moore sforna un film sanamente populista e arrabbiato. La tesi è semplice: il capitalismo ha rovinato la società occidentale. I ricchi restano ricchi, i poveri restano poveri. Difficile far appassionare il pubblico ad un argomento del genere. Il regista di "Bowling a Columbine" ci riesce, utilizzando un'ironia efficace e mai invadente (la pubblicità di una banca, in cui la voce della sensuale speaker è sostituita con quella di un mafioso stile "Il padrino"), intervistando chi ha perso la casa dopo la recente crisi, evidenziando i paradossi e le storture del "paese più potente del mondo" (le banche che incassano un patrimonio in seguito al decesso di un dipendente) peccando un poco in retorica in alcuni frangenti, come quando mostra il successo di un gruppo di operai (sostenuti da Obama) che hanno ottenuto gli aumenti richiesti dopo essersi barricati in fabbrica. Ma il finale con il discorso di Roosevelt è da pelle d'oca. Leone d'oro? Perché no. (8/10)
Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans (In concorso)
Herzog rifà Ferrara. Sì, ma non ditelo a voce alta, sennò il regista di "Aguirre" si arrabbia. Effettivamente tra i due film non c'è molto in comune, cambia quasi tutto a partire dall'ambientazione nella torrida New Orleans post Katrina. Chiaro l'intento di Herzog, rileggere la vicenda dello schizzato, corrotto e drogato (ma, ehi, non privo di valori, ama la sua donna e vuole incastrare una banda di spacciatori cattivi) poliziotto Terrence McDonagh, in chiave da commedia dark, e a tratti ci riesce, come nei lisergici inserti animaleschi, in cui Cage (che ripropone il suo personaggio de "Il genio della truffa) vede delle inesistenti iguane. Ma per il resto ci troviamo di fronte ad un onesto, quanto scolastico, noir, più cinico che davvero cattivo, incapace di scuotere veramente l'animo dello spettatore come il disperato "tenente" di Abel Ferrara. I fan del regista si sono dichiarati entusiasti, ma i dubbi restano. (6/10)
My Son, My Son, What Have Ye Done (In concorso)
Il primo film a sorpresa della 66a edizione della Mostra del cinema, è ancora un Herzog, ma il risultato è addirittura più deludente del remake de "Il cattivo tenente". Più deludente perché tutti si aspettavano un lavoro più personale, ma anche perché qui tra i nomi coinvolti c'è pure quello di David Lynch (produttore, ma anche collaboratore in fase di sceneggiatura). Purtroppo però dall'unione di questi due straordinari autori è uscito un oggetto anomalo e bizzarro, astruso e intellegibile, che pare poco Herzog e ancora meno Lynch. Sfugge l'intento. Ritrarre la discesa verso la pazzia di un uomo comune (Michael Shannon, ormai abbonato al ruolo dello psicopatico)? Mostrarci che il mondo attorno a questo folle è ancora più pazzo? (lo zio interpretato da Brad Dourif). Difficile dirlo, perché tutto resta in superficie, e Herzog pare incapace di trovare una cifra stilistica e personale, o una chiave di lettura adeguata (tragica, comica?) per mettere in scena la vicenda. (5/10)
Prove per una tragedia siciliana (Fuori concorso)
L'attore John Turturro torna in Sicilia, terra natia dei suoi avi, per scoprire qualcosa in più sulle proprie origini ed effettuare delle ricerche su un possibile film ambientato in quei luoghi. Il risultato è questo "documentario", leggero, onesto e divertente, dove l'attore tanto caro ai Coen e Spike Lee si improvvisa "puparo" e visita diversi luoghi legati alla propria infanzia (impagabili le suore del convento), mentre diversi ospiti (tra cui Andrea Camilleri) ci raccontano qualcosa in più sulle tradizioni di questo antico paese. Nulla di imprescindibile, ma un buon esempio di cinema libero da logiche commerciali, sincero e genuino come il suo protagonista. (6,5/10)
Tetsuo: The Bullet Man (In concorso)
Quando gli ammazzano il figlioletto, il placido impiegato Anthony si arrabbia sul serio e inizia a trasformarsi in una mostruosa creatura metallica e distruttiva. Colpa degli esperimenti del padre scienziato. Sembra la trama del bellissimo "Hulk" di Ang Lee, che a sua volta rubacchiava da "Tetsuo II: Body Hammer", ma in realtà è solo un pretesto con cui il sopravvalutato regista giapponese tenta di riciclarsi per far contenti i propri fan. L'unica novità rispetto ai capitoli precedenti è rappresentata dalla sempre maggior linearità narrativa; il resto, tra effetti speciali e mutazioni da baraccone, montaggio da videoclip e colonna sonora tritura timpani, non stupisce, né inquieta, più nessuno. (4/10)
Persécution (In concorso)
Precarietà dei sentimenti, solitudini che si sfiorano, in un film che più francese non si può. Il giovane Daniel, insoddisfatto del proprio rapporto con l'amata e fredda Sonia, cerca calore umano e amore in ogni modo, con una sconosciuta in metropolitana, con gli anziani ospiti di una casa di riposo, ottenendo però solo frustrazioni. Improvvisamente trova in caso un intruso, un uomo nudo e ubriaco che dice di amarlo. E dopo l'iniziale spaesamento Daniel scoprirà che il misterioso personaggio gli è più vicino di quel che pensa. Ritmi rarefatti, la macchina da presa che non stacca mai dai volti dei protagonisti (bravissima Charlotte Gainsbourg), dialoghi a raffica. Il film di Chéreau parte bene, è raffinato e ha alcuni momenti di grande poesia (la scena finale con l'addio tra i due innamorati e Daniel che cammina da solo con in sottofondo "The Mysteries of Love" -da "Velluto Blu" di Lynch- cantata da Antony), ma perde la strada troppo spesso, tra intellettualismi d'accatto (il "persecutore" è reale o frutto dell'insicura mente di Daniel?) e una verbosità pesante e fasulla a rischio di sbadiglio. (6/10)
Toy Story 2 3D (Leone d'oro alla carriera)
Poco da aggiungere su questo gioiello firmato Pixar (il loro terzo successo, uscì nel 1999), che riesce addirittura nell'impresa di superare l'ottimo capostipite. Ritmo mozzafiato, citazioni a non finire e una morale non scontata (l'importante è vivere fino a fondo), impreziositi in questa riedizione dal formato stereoscopico che aumenta il divertimento. Ma ancora più impagabile è vedere John Lasseter e George Lucas ridere con gli occhialoni 3D, o sentir scattare l'applauso del pubblico con la citazione de "L'impero colpisce ancora" ("io...sono tuo padre!"). (8/10)