Per tutti è stato il momento in cui il paese ha perso l'innocenza. Di certo da allora il nostro è diventato il paese del buio, trasparenza (quasi) zero, connivenze senza soluzioni di continuità e gioco al massacro del tutti buoni tutti cattivi.
Di certo ci si è messo più di 40 anni a fare un film su una strage di fatto rimasta impunita come questo "Romanzo di una strage" (dal 30 nei cinema in 250 copie di partenza) di Marco Tullio Giordana, punto di partenza l'esplosione alla banca dell'agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969, punti di azione tanti, punti di vista, tra istituzioni, servizi, giornalisti, cittadini altrettanti ("Io non avrei potuto farlo prima , anche mettermi nei panni di tutti non è cosa facile. Ci vuole del tempo, a 30, a 40 anni non sarei stato capace di farlo. Ho imparato anche molto studiando Pasolini e la sua libertà di punti di vista che non significa certo rinunciare a un punto di vista") ma zoom puntato sul commissario Luigi Calabresi. Stavolta il protagonista è lui. L'uomo additato come assassino, accusato, ammazzato.
"Cosa sai di Calabresi mi chiese il regista all'inizio e io gli risposi che sapevo ciò che c'era da sapere-dice Valerio Mastandrea che veste i panni del commissario- Ma Giordana mi ha spiegato che voleva raccontare la strage di piazza Fontana come l'inizio di una guerra italiana e, allora, io ho pensato che l'unico modo di affrontare il personaggio di Calabresi era studiare prima ma poi non prepararsi troppo. Non ho voluto entrare in contatto con la famiglia, anche per pudore. Credo, alla fine, che sia stato il ruolo più difficile della mia carriera e lavoro da 20 anni. Ho sospeso ogni giudizio ideologico su Calabresi e mi sono concentrato solo sull'immagine di un giovane uomo a 32 anni commissario nel Ufficio politico che cambia strada facendo, prende coscienza di essere stretto in un ingranaggio gigantesco in un momento storico in cui si inaugurava di fatto una stagione di silenzi, di accettazione dello status quo da cui non siamo più usciti. Oggi siamo viziati da questo silenzio, dalle impunità, dai pregiudizi. Non è un caso se si è aspettato 40 anni per fare questo film. Per me è stato importante interpretare Calabresi per parlare di una strage che è lontana da noi ma che ha lasciato un senso di impunità che non se ne andrà finchè il paese non cambia. Non è un lavoro solo tecnico per me: è un discorso che ho aperto dentro me stesso e va avanti. Ma è importante non dimenticare che la verità esiste ,che esistono i buoni e i cattivi, che non siamo tutti uguali. La scelta di Giordana è audace ".
Così come è audace tutto il film che grida , con Giordana , "la verità esiste, anche se non ce la dicono e , soprattutto, i ragazzi devono leggere la storia d'Italia partendo da quella strage ma venendo a conoscenza di cose che si sanno, anche se non si dicono.Io devo anche ringraziare il produttore Riccardo Tozzi che mi ha permesso di farlo senza aver paura di dissensi e querele. Naturalmente nel film c'è l'informazione ma agganciata all'emozione perché quando non è così tutto si disperde. E poi io Calabresi l'ho conosciuto , mi ha interrogato quando occupai il mio liceo ed era davvero gentile, nulla a che vedere con tutti gli altri. Era una mosca bianca. Molto diverso da chi gli stava intorno. Nella sua stanza quella notte parte è chiaro che Pinelli no si suicidò, ma molti hanno creduto davvero che l'avesse buttato lui di sotto. Io non ci credo: credo che non c'era Calabresi in quella stanza e che non fu lui a buttare di sotto Pinelli. Il film è un film, non me ne frega niente dell'ideologia. Ho Kubrick, Bergman che mi aspettano e del resto che mi importa? ".
E Pierfrancesco Favino, l'anarchico Pinelli nel film, confessa di essere lui stesso ad offrirsi a Giordana per il film: "Avrei fatto qualunque parte, ho incontrato anche la moglie di Pinelli molto disponibile. POi sono del '69, l'ho sentito vicino e , comunque, io sono sempre attratto da sogni di persone che vengono spezzate. Mi sono documentato ma , in parte, lo ero già, mi sono chiesto che cosa sarebbe successo a mia moglie se io fossi uscito di casa come lui e non fossi più tornato. Magari Pinelli era meno energico e sanguigno di me e balbettava ma noi non volevamo farne un agnello sacrificale. Volevamo e volevo raccontare il fatto che, allora il senso di ciò che era la democrazia c'era per quella gente che credeva ancora di potervi collaborare,mentre oggi spesso non ci sentiamo protagonisti, spesso neppure la vediamo più la democrazia. Ma quella strage è stata per gli italiani ciò che l'11 settembre è stato per gli americani: appunto la perdita dell'innocenza e l'apertura degli occhi su un baratro". Chiude Fabrizio Gifuni, fisicamente trasformato per entrare nei panni di Aldo Moro, che è stato soddisfatto dal fatto che "in questo film si racconta un Moro mai visto, molto prima dei 55 giorni del rapimento che poi hanno molto fagocitato la figura di Moro. IL materiale su Moro su cui lavorare era enorme e poi io ho un rapporto vicino con la storia del mio paese ma , sul piano della pratica attoriale, ci sono delle cose che mi hanno aiutato. Io entro di solito in uno stato monacale prima di entrare nel personaggio, stavolta ho fatto l'opposto. Passavo il mio tempo al teatro Valle occupato e da lì andavo direttamente sul set e poi mi hanno mandato dal vero camiciaio di Moro e il collo penzolante dentro le sue camicie mi ha aiutato più di molti libri".