Presentato in concorso al Torino Film Festival 2015, "I racconti dell'orso" è una pellicola anomala nel panorama indipendente italiano: frutto di un'amicizia, di un viaggio, di una ricerca (di libertà). Abbiamo incontrato i giovani registi Samuele Sestieri e Olmo Amato che ci hanno raccontato come ha preso forma questa fiaba contemporanea
Risulta ormai tediosa la storia che vuole un cinema italiano uniformato a pigri e piatti canoni estetici al servizio di una stanca narrativa che sonda solite dinamiche e luoghi comuni.
È pur vero che se un altro cinema italiano esiste e basta cercarlo al di là delle leggi distributive, dalle nostre parti - ma non solo - regna un paradosso: con l'avvento del digitale e, di conseguenza, con una moltiplicazione di possibilità da parte di filmmaker in erba, il cinema capace di osare, di superare gli scogli di un budget limitato o nullo è penalizzato e ingabbiato nelle ampie e dispersive vallate del web. Nuove frontiere rispetto all'underground italiano dei '60, alle videoriprese di un Grifi o al primo Super8 di Moretti. Film che attraverso limitate distribuzioni o fortune in ambiti prettamente cinefili vivevano e respiravano sul grande schermo.
Se il mondo del web aiuta e limita al contempo, "I racconti dell'orso" di Samuele Sestieri e Olmo Amato abbatte le frontiere in modo palese per così risultare un ufo anche all'interno di quel cinema indipendente al quale potrebbe comunque essere inscritto.
Il film nasce da un'amicizia, dall'amore per il cinema, da un viaggio. Da un viaggio dettato da un'amicizia, da un viaggio frutto dell'amore per il cinema.
Nel Nord Europa i due autori hanno girato il film in 40 giorni e hanno forgiato il risultato finale attraverso una lunga post-produzione che, dal fondamentale lavoro sul sonoro al crowdfunfing che ha permesso di ultimare la pellicola, ha dettato i ritmi lavorativi capaci di condurre il risultato finale al concorso ufficiale del Torino Film Festival 2015 e, successivamente, a rassegne e Festival non soltanto nazionali.
Ponendosi in un territorio che da solo basterebbe ad offrire la possibilità di ispezionare uno sguardo "altro", i due registi indossano i panni di due entità, , un monaco meccanico e un omino rosso, che abitano le inquadrature percorrendo un tragitto che è ricerca di sé e dell'altro, ma anche personale meraviglia in divenire. Nel cercarsi e trovarsi, nel vagabondare, nel passare dal piccolo gesto all'alta preghiera il movimento dei due sembra essere lo stesso dei due giovani registi. La sorpresa perpetua di fare del cinema, di attraversarlo, di viverlo.
L'azione è forse il frutto del sogno di una bambina, ma vive anche al di là di esso al punto da farne un tutt'uno. C'è dunque nello sguardo di Sestieri e Amato genuinità, entusiasmo, voglia di fare e conoscere.
Ne esce una sorta di low-fantasy, una fiaba ai confini del mondo, un viaggio a tappe.
Il movimento dei personaggi produce un duplice leitmotiv che parallelamente attraversa il film: l'erranza e il gioco. I personaggi, le presenze, i corpi dei due sono elementi che regnano inquadrature di buona composizione stilistica. Fissità prevalentemente alternata a momenti con macchina da presa a mano. Il budget ridotto conduce quindi ad un rifiuto di programmaticità artistica: escludendo per forza di cose dolly e carrellate, Sestieri ed Amato cercano il respiro nella libertà, primario bisogno di un cinema che si vuole svincolato da dogmi e schematismi prestabiliti. Per salire sul film è di conseguenza necessario accantonare esasperate ricerche di celati significati. "I racconti dell'orso" è un cinema che vuole azzerare il preconcetto, i dettami che determinate condizioni del movimento e della scoperta attanagliano cinema e vita. È dunque richiesto allo spettatore di guardare e perdersi nell'immagine incontaminata. Fondere la limpidezza dei luoghi ispezionati con una necessaria purezza di sguardo. "Come fosse la prima volta".
Intervista a Samuele Sestieri e Olmo Amato.
Partiamo dalle retrovie, da ciò che precede il film. Quando e come nasce la passione per il cinema e in che modo si sviluppa? Come ha preso forma la voglia o l'esigenza di girare un film?
Olmo: Io ho studiato scienze e neurobiologia, mondi dunque distanti da quello cinematografico. Sono però da sempre appassionato di fotografia ed attualmente lavoro infatti come fotografo. Naturalmente il cinema mi ha sempre affascinato ma non avevo mai realmente pensato di girare un film. In tal senso è stato decisivo l'incontro con Samuele.
Samuele: Io sono cresciuto in una famiglia dove il cinema era sempre di casa. Quando ero piccolo trascorrevo molto tempo di fronte alla biblioteca di mio padre e alle tante videocassette che registrava, in buona parte ottenute dalle programmazioni notturne del Fuori Orario di Rai3: da lì la voglia di vedere, curiosare, scoprire. Dopo gli studi cinematografici ho realizzato cortometraggi sperimentali che mi permettevano di liberarmi da rigidezze e accademismi cui reagivo quotidianamente. Da tempo avevo voglia di un viaggio nella natura finlandese. A quel punto ho proposto a Olmo di condividere quest'esperienza, di dar forma a quello che inizialmente era un soggettino su due personaggi che si inseguivano lungo terre desertiche.
Una volta nata la voglia di girare qualcosa avete dunque fin dal principio pensato ad un luogo geograficamente tanto distante dal nostro? C'era nella vostra voglia di filmare l'intenzione di adottare uno sguardo "diverso"? Faceva parte della sfida?
Olmo: Il nostro intento era quello di indagare su due figure più o meno astratte che si muovevano in zone incontaminate, distanti da luoghi riconoscibili o familiari. Lo spostamento provoca automaticamente un'alterazione. Ci interessava innestare uno sguardo che riflettesse il nostro viaggio.
L'impressione che ho avuto, guardando il film, è che in qualche modo il vagare, cercare, muoversi dei due personaggi sia strettamente connesso alla ricerca vostra, dei due registi. Così ottenendo la libertà forse richiesta dal budget limitato. La vostra esperienza, ciò che stavate facendo sul set, si è riversata nel film e nella stessa narrazione?
Olmo: Nel nostro vagare incontravamo casualmente posti, situazioni, persone. Ci fermavamo in un luogo e iniziavamo a girare. Per questo i movimenti, le scoperte, i racconti di questi due personaggi riguardavano direttamente noi stessi e il nostro viaggio.
Samuele: Il nostro era un viaggio che partiva da Helsinki, percorreva l'intera Finlandia per poi approdare a Capo Nord. Ci interessava in particolar modo il tema dell'erranza, del vagare senza meta, del perdersi. Abbiamo provato a liberare le nostre immagini da qualsiasi struttura predefinita e, di conseguenza, è stato questo nostro stesso vagare a costruire mano mano il film. D'altronde quando ti ritrovi con materiale non scritto hai possibilità di scriverlo davvero solo a montaggio.
Lasciate intendere fin dal principio che la storia è frutto di un sogno di una bambina. I personaggi rivelano uno spirito non dissimile a quello di una bambina, non a caso "il gioco" è uno dei motivi conduttori del loro movimento. In che misura è dunque consigliabile vedere il film adottando il punto di vista della piccola?
Samuele: Avevamo in mente i due personaggi. La bambina è giunta soltanto in un secondo momento. Volevamo fin dal principio che queste due strane creature assomigliassero ai bambini, caratterizzati come sono da un linguaggio pre-verbale, da suoni onomatopeici. Avevamo l'esigenza di scoprire il mondo che attraversavano proprio come farebbe un bambino, con lo stesso senso di mistero e di meraviglia. Soltanto successivamente ci siamo resi conto che avevamo bisogno di un mondo ordinario che facesse da cornice alla storia, un'intelaitura non troppo esplicita, ma sottile, in grado di offrire uno sguardo diverso. Le immagini della bambina, compresi gli scambi di battute tra i due adulti, fanno parte di materiale girato casualmente in Finlandia e non pensato direttamente per il film. Materiale dimenticato che abbiamo ripescato solo a un mese dalla fine del montaggio.
E come immaginate possa essere percepito dai bambini il film?
Olmo: E' la cosa che ci siamo chiesti anche noi. A tal proposito abbiamo fatto alcune proiezioni test con bambini dagli 8 ai 12 anni, che hanno molto apprezzato il film. La nostra meraviglia deriva proprio dalle risposte che ci fornivano, quando gli si chiedeva qualcosa.
Basando la loro visione sul puro intuito, spoglio da preconcetti e dietrologie, è come se i bambini avessero avuto una chiave di lettura privilegiata. Sentivano il film ancora prima di capirlo, facevano annotazioni e considerazioni tutt'altro che banali. Possiamo dire, in un certo senso, che il bambino è il nostro spettatore ideale. Già i ragazzini di 14 anni storcevano il naso, alla ricerca forzata di un "significato" a tutti i costi. I due personaggi si muovono in spazi vuoti. Più che uno scenario post-apocalittico mi sembra semplicemente un grande spazio disabitato.
Samuele: Gli uomini non ci sono anche perché non erano necessari. A noi interessava principalmente l'idea di traccia, di residuo, di resto. E di memoria. Non pensavamo tanto a un cataclisma per giustificare la scomparsa dell'essere umano. Ci interessavano piuttosto le conseguenze: se l'uomo sparisce così, di punto in bianco, cosa resta del mondo? I nostri due personaggi provano forse nostalgia di fronte a queste assenze, a tutte queste mancanze. Dalla segnaletica alle statue, dalle macchine abbandonate alle costruzioni architettoniche, il film suggerisce sempre che prima un mondo c'è stato. E ora non c'è più nulla. Questo genera una situazione di stasi, di noia: il tempo è dilatato, il mondo pare una realtà congelata dove non resta altro che divertirsi, passare il tempo, giocare. E nel gioco l'omino rosso e il monaco meccanico riscoprono il piacere della compagnia, dell'amicizia, del prendersi cura l'uno e dell'altro. Il ritrovo dell'orsetto va proprio in questa direzione: ciò che rimane dell'umanità è la cura, il desiderio di rimettere i pezzi a posto, di animare l'inanimato, di riscoprire un nucleo familiare, di amare e di essere amati. Il mondo passato ci interessa come riferimento per qualcosa di nuovo da costruire.
Fin dai movimenti dei due emerge nel film un umorismo il più delle volte sottile. Era nelle vostre intenzioni far convergere la leggerezza capace di non rendere pesante lo scorrere degli eventi?
Olmo: Inizialmente le personalità dei due personaggi non erano ben definite. Ci siamo divisi i ruoli con l'idea di connotarli in maniera diversa, ma le caratteristiche non erano del tutto chiare. I due personaggi sono nati mano mano che li interpretavamo. L'idea di non prendersi sul serio nasce dal mood ludico del film. I due personaggi si muovono perennemente tra gioco e malinconia per combattere noia e solitudine.
Samuele: Loro sono goffi, buffi, spesso improbabili. Volevamo che le loro gag somigliassero a quelle del cinema delle origini, ai siparietti splapstick di tanti film che amavamo. Il lavoro sul sonoro fatto da Virginia Quaranta, che doppiando i personaggi ha dato al film un'altra vita, ha portato a compimento ciò che desideravamo. La loro comunicazione onomatopeica ha accentuato tante piccole intuizioni che Olmo e io avevamo sul set.
Olmo: C'è da sottolineare che parlavamo moltissimo mentre facevamo le riprese. Sotto le nostre maschere, ci trovavamo tutto il tempo a scherzare. Per fortuna il film è stato interamente ridoppiato, ma la leggerezza del movimento era frutto di un costante dialogo tra di noi che, pensiamo, sia diventato un po' l'humus del film. Nelle vostra idea l'intenzione di conciliare le piccole esperienze quotidiane ad un'avventura, un'esperienza di vita grande.
Una delle sequenze più azzardate ma a mio avviso più belle è la preghiera alla luna. Con che idea vi siete avvicinati alla possibilità di passare dal piccolo all'infinito?
Samuele: Quando ti muovi in ambienti naturali, dove manca qualsiasi tipo di sovrastruttura, ti risulta spontaneo ritrovare piacere nelle piccole cose. Una foglia, un lago, un soffio di vento. Più scavi in queste piccole cose più ti sembra di trovarci qualcosa di grande. E' un po' il sogno antico di scoprire tutto, ma proprio tutto, all'interno di ogni singolo elemento. D'altronde i due personaggi si muovono sempre sfiorando oggetti, piante e animali, ogni cosa sembra richiamarli, invocarli, guidarli a sé. Non vagano con il presupposto di cercare qualcosa di più grande, tanto che basano tutta la propria fede sull'orsetto da rianimare. Quando si imbattono nell'esigenza di cambiare le cose, di ridare vita al piccolo orsetto, si rivolgono allora a un'antichissima divinità: la luna. Giungono all'infinitamente grande attraverso il piacere e la conoscenza delle piccole cose.
Ho molto apprezzato il finale. La bambina si sveglia, il sogno si conclude, ma i personaggi continuano a vivere. Forse nella fantasia della bambina, forse nel sogno di un altro bambino. Mi sembra una metafora del cinema e dell'arte in generale. Usufruire del film che poi continuerà a vivere in noi. Avete scelto di proposito un finale metaforico e, comunque, che significato vi piacerebbe che abbia?
Samuele: A noi piaceva quest'idea: i bambini crescono, ma i loro sogni continuano a vivere altrove. Pensavamo continuamente a "Il mago di Oz" con la fatidica domanda: "dove finiscono gli eroi della nostra infanzia quando cresciamo?". Ciascuno è libero di trovare la risposta che preferisce. Quella del finale è un po' l'Isola che non c'è. Durante le riprese pensavate già in prospettiva futura?
Olmo: Durante le riprese non pensavamo alle fasi di post-produzione. Tanto l'idea della raccolta fondi quanto il lavoro sul sonoro sono arrivate in un secondo momento. Sul set ci siamo concentrati a raccogliere una gran quantità di materiale, ottenendo tutte le inquadrature di cui avevamo bisogno. Abbiamo poi trascorso un anno e mezzo al montaggio e, contemporaneamente, c'è stato il lavoro sul sonoro. Dato che ci occorreva un ottimale lavoro di sonorizzazione abbiamo pensato alla raccolta fondi. Il lavoro sul sonoro è stato fatto dalla New Digital di Roma, che ha ricostruito artigianalmente tutti i suoni del film. Dal fuoco alle foglie a ogni singolo passo: aver assistito a tutto ciò ci ha permesso di guardare il film sotto una luce diversa. E' stato uno spettacolo, come ascoltare di volta in volta i brani musicali di Riccardo Magni che, letteralmente, animavano il film, lo facevano respirare. In totale l'intera post-produzione è durata due anni pieni.
Ci sono stati momenti difficili durante le riprese?
Samuele: Eravamo in Finlandia durante la stagione delle 24 ore di luce. In determinate circostanze i momenti duri sono inevitabili, ma il poter contare su un'altra persona è fondamentale per la resistenza, fisica ancora prima che psicologica (dormivamo pochissimo!). Non sono poi mancati i colpi di fortuna che fanno tanto, tantissimo mentre giri un film: noi crediamo che il caso, gli eventi non premeditati, le possibilità impreviste siano fondamentali per la riuscita di un film.
Olmo: Talvolta abbiamo affrontare vere e proprie prove fisiche. Anche correre scalzi in un bosco può rivelarsi un rischio, soprattutto se poi scopri che il terreno è colmo di ferri arrugginiti. Ma è soltanto successivamente, per l'appunto in post-produzione, che sono arrivati i momenti più critici.
Come è andata questa fase di lavoro?
Samuele: Bene, è stata faticosa certo, ma piena di soddisfazioni. A quel punto sono entrate altre persone che ci hanno permesso di finire il film, donandoci il loro tempo, la loro pazienza, tutto il loro talento. E' arrivato il crowdfunding, che è stata praticamente una più che riuscita colletta tra amici e familiari, senza i quali staremo ancora montando il film. E' chiaro che poi il crowdfunding crei delle aspettative da parte di chi ha voluto aiutarti. E' una condizione stimolante ma non sempre facile: da una parte quasi ti senti protetto, dall'altra sai che non puoi fermarti nemmeno nei momenti più critici perché c'è gente che crede in te. Il film, poi, è andato bene, continuiamo a seguirlo come un figlio mentre gira per svariati festival. Se ripensiamo a come tutto è nato, possiamo dire che I Racconti dell'Orso è stato per noi un piccolo miracolo e ringraziamo tutti quelli che gli hanno voluto bene. Come Mauro Santini, ad esempio, che ha visto il film e ci ha aiutati in tutti i modi possibili. All'improvviso scopri un mondo sotterraneo di cineasti invisibili, persone bellissime che ti fanno sentire meno emarginato, meno solo. E questo è importante, specie nei momenti più difficili. Noi non finiremo mai di citare Claudio Romano e Betty L'Innocente, i registi di Ananke. Tra noi si è creata un'alchimia bellissima, il sogno comune di fare, vedere un cinema diverso. Che ci riguarda, che ci dona qualcosa. Questo ci permette di credere ancora un po'.
Durante la lavorazione del film avete mai litigato o almeno siete mai stati in netto disaccordo su aspetti lavorativi?
Olmo: Litigate brutte per fortuna non ci sono state. Ci sono stati momenti difficili, di stanchezza fisica e psicologica. Però quando uno era stravolto, c'era sempre l'altro che lo trascinava. Ci sono state ovviamente delle discussioni, piccoli scontri di punti di vista, ma siamo sempre arrivati a compromessi che hanno poi difatti accontentato entrambi.
Lavorare insieme, in fin dei conti, è stato un gioco. Successivamente alla realizzazione, è cambiato e come il vostro modo di vedere i film, il cinema?
Samuele: Sì e no. Con gli anni quello che m'interessa sempre di più è che il film mi parli in maniera onesta. Sono sempre più annoiato dal film "perfetto". Non so se ciò sia dovuto all'esperienza del film, ma più vado avanti più subisco la fascinazione per i piccoli film, per quelli fragili, imperfetti un po' come le persone che li fanno. Subito mi viene voglia di volergli bene, di difenderli.
Olmo: Sì. Questo film ha cambiato molto la mia visione del cinema. Per me era un mondo nuovo, che per forza di cose guardo ora con occhi diversi. Ho sempre più l'esigenza di approfondire e scoprire il cinema. Mi fido di Samuele: lui mi conosce e sa che direzioni posso intraprendere.
State già pensando ad un secondo film? Sentite l'esigenza di continuare il discorso intrapreso con "I racconti dell'orso", pur non ripetendovi?
Samuele: Non vogliamo rifare i racconti dell'orso, ma qualcosa di completamente differente. Il momento è buono per reinventarci. Stiamo lavorando da ormai qualche mese a un secondo progetto. Questa volta ci sarà una produzione vera e propria, dunque le dinamiche realizzative saranno molto diverse. La sfida più bella sarà quella di capire cosa succederà entrando nella macchina cinema, tutelando in ogni modo quello a cui più teniamo, la nostra ingenuità.