La summa di tutte le riflessioni, quella intorno alla morte, vista attraverso il Cinema che l'ha intercettata nelle sue sfumature e evoluzioni. Ecco a voi un possibile itinerario
Il tabù del nostro secolo, l'innominabile, Morte.
Il Cinema, se ci si lascia carezzare dalle sue seduzioni, è arte fatta di uomini per parlare all'uomo. Della sua evoluzione e dei suoi regressi; del suo cammino e delle sue soste. Si restituisce ai vivi nello stesso momento in cui si consegna ai posteri; non si consuma nell'immediatezza del minutaggio, ma transita nella durata. Conserviamo, cosicché, un patrimonio unico e tronfio che, se ceduto alla luce e ripulito dalla polvere della noncuranza, ci racconta qualcosa di più di un plot ameno.
E' utile specificare, affinché la delusione non adombri il volto del lettore, che la storia del cinematografo è sì ricca di morti, e delle disparate specie: dalle dipartite gore à la Kitano, agli effluvi di sangue tarantiniani, alla teologia della vendetta dei western, ma nulla di tutto ciò troverà spazio nel nostro excursus dalle parti del capitolo conclusivo della vita. Poiché si tratta di rappresentazioni esclusivamente esteriori di un interrogativo, un problema dell'esistenza, su cui l'uomo si è ripiegato inquieto e timorato dalla notte dei tempi e che il cinema ha immortalato in 35 mm, perfino nelle sue - meno evidenti - evoluzioni.
L'Espressionismo tedesco: la morte è un tango scabroso.
Nel secolo in cui si pensava che la ragione sonnecchiasse, il Medioevo, l'uomo aveva nei confronti della morte un rapporto di familiarità, in quanto epilogo di un destino disvelato ormai costretto all'estrema unzione. Nessun infingimento dunque, ma abbandono altresì mistico al compimento di un disegno dall'indefinitezza escatologica [1]. Il dolore è esibito, sovrappiù ricercato. Il morente è cosciente di raggiungere il limitare dei suoi giorni, talché - dal XII secolo - la morte diventa strumento di auto-discernimento [2] per l'individuo che passa in rassegna, prima dell'ultimo sospiro, piccole miserie e (vana)glorie di tutta-una-vita alla ricerca della salvezza, e in scampo alla dannazione. Un alone di drammaticità comincia, così, ad insinuarsi greve: quel sentimento esistenziale che dalla consapevolezza della caducità del miserabile destino dell'uomo fa derivare i suoi tormenti. È l'attaccamento alla vita che si mostra più forte allorquando cerca di nascondere il suo contrario. Tentando impunemente di sconfessare Eraclito secondo il quale nulla potesse esistere senza dei contrari uniti in un sacro vincolo. Nell'epoca moderna, quindi, cambia qualcosa: la morte si allontana dalla sfera del quotidiano e si lega finanche all'erotismo, a suggello di una rottura dai rituali abituali.
Questa inversione viene intercettata e introiettata dal cinema, attraverso l'Espressionismo tedesco, che è il primo momento cinematograficamente rilevante in cui la mera rappresentazione fenomenica della morte si eleva a riflessione. Ne Il gabinetto del dottor Caligari (Wiene, 1920) confluiscono paure e deliri terragni: le luci e le ombre sceniche si intersecano e si contrastano rifrangendo il bene e il male. Il conflitto mondiale sgretola anche l'ultimo barlume di speranza e l'uomo si lascia cadere indifeso tra le braccia di un vuoto pneumatico. Cinema dell'immaginario, visionario e onirico, di creature abbrutite, respingente e suadente come l'impulso di morte attraverso cui Wiene, Murnau, Lang ammantano le loro opere emblematiche e da cui lo spettatore si lascia lambire: l'iconoclastia classica è superata da una ridefinizione della mortalità abbarbicata alle pendici della vita. Sono gli anni 20 e Sigmud Freud ha appena decodificato la pulsione di morte, e di vita, come opposti in reciproca inclusività [3]. È significativo come l'interpretazione psicoanalitica dei motivi espressionisti sia funzionale a quella politica (inerente ai conflitti mondiali e al Nazismo), confermandosi, entrambe, come progenie della stessa vertigine esistenziale.
Dal deserto post bellico la trascendenza di Bresson.
All'alba del dopoguerra l'uomo è atterrito dinanzi all'ignoto, la società antropocentrica è un vezzo passatista, e la paura interviene a scandire le ore degli individui chiamati a sopravvivere in una realtà desolante con l'incombente morte al varco; non più accettata nella sua inesorabilità, invero temuta [4]. Robert Bresson, autore minimalista nella forma, ma sovraccarico di esistenzialismo, interpreta le inquietudini della condizione umana, le rigetta nella sua ieratica filmografia, e ottunde la morte con la trascendenza. Già il suo primo lungometraggio La conversa di Belfort (1943) declina l'antinomico scontro tra bene e male, anima e carne, in cui la sofferenza è costante necessaria per intraprendere un salvifico percorso di redenzione. Quello che la conversa insinua, Diario di un curato di campagna (1951) completa: la ricerca spirituale all'interno di una realtà depauperata della speranza e declassata a selva vischiosa conduce alla dissociazione alienata dalla società e dal sacro, cosicché l'esistente si traduce in una agonia sfiancante per il curato. La morte assume, in questo contesto, un ruolo emblematico (Anne-Marie e il curato muoiono dopo aver redento, il sacrificio di Giovanna è quello di un'icona spirituale) e liberatorio (in particolare in quella parte della filmografia bressoniana in cui il pessimismo ha la meglio su ogni fiducia nelle possibilità del libero arbitrio) [5].
Ingmar Bergman: una partita a scacchi con la morte.
Il settimo sigillo (1957) introduce il tema religioso nella filmografia del cineasta svedese. Il Cavaliere è un credente in dubbio; lo scudiero un cinico materialista. Un tu per tu con la Morte di 96 minuti ci addentra fin nelle viscere dell'angoscia esistenziale - tanto cara al filosofo Søren Kierkegaard, al quale Bergman pare aderire - esemplificativa del sentire dell'uomo moderno: l'horror vacui atterrisce l'uomo e la disperazione resta l'unico approdo di questo girare a vuoto dell'anima.
Cavaliere Block: Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine? Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno, come cadendo nel nulla, senza speranza!
Morte: Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose.
Cavaliere Block: Ma verrà il giorno in cui si troveranno all'estremo limite della vita.
Morte: Sì, sull'orlo dell'abisso...
Cavaliere Block: Lo so, lo so ciò che dovrebbero fare. Dovrebbero intagliare nella loro paura un'immagine, alla quale poi dare il nome di Dio.
In questo abstract tutto il senso ultimo dell'aspirazione religiosa del cinema bergmaniano. La fede, dunque. Unica possibilità di sublimare la mortalità e la ricerca illusoria di una verità. La trilogia religiosa ("Come in uno specchio", "Luci d'inverno", "Il silenzio") realizzata dal regista, però, ha un procedere discendente: dalla certezza fideistica al silenzio di Dio, parimenti i suoi personaggi svirgolano dalla completa conquista della fede. Questo perché l'unica possibilità concessa all'uomo di corruzione della morte, la fede, è ricerca che si presta a cadute e fallimenti. E quando non si trova Dio è il vuoto a sopraffarci. In "Persona" Alma legge a Elisabeth: "L'ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l'angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della nostra condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede, del nostro dubbio nell'oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della nostra solitudine e della costante paura che ci possiede".
La morte, dunque, per Bergman acquista un significato "positivo" se strumentale a una teoria dell'essere: la paura di morire assume un'accezione spirituale esclusivamente in forza di un pensiero più forte dell'angoscia che sappia concepire la morte in funzione della vita. E se Bresson riflette, nei concetti di predestinazione e redenzione, le radici culturali occidentali, Bergman dà voce alle inquietudini dell'uomo moderno.
Nel XIX secolo, in questo quadro umanistico e spirituale, che il cinema ha inchiodato nell'audiovisivo, la morte scompare dalla sfera familiare fino a diventare "innominabile" nel XX [6]. Un tabù da non mostrare né ricordare e, se proprio serve, meglio cedere all'eufemismo, anziché guardarla in faccia.
La morte si imbelletta.
Nel 2001 ha fatto il suo esordio una serie tv che resta unica nel suo genere, Six Feet Under. Intrisa di humour nero, situazioni grottesche e sferzante cinismo arrischia il tentativo di raccontare proprio la morte. Centro focale di cinque stagioni, è descritta fin negli aspetti biologici posteriori al decesso, a dimostrazione della naturalezza straniante con cui è guardata dalla famiglia Fisher. Ogni episodio si apre con una morte, solitamente accentuata, nella sua singolarità, dal dileggio del fato. La tv seriale si arroga, così, il privilegio di rappresentare il rinnovato rapporto dell'uomo di fronte alla morte nella società contemporanea, e americana. Con tanto di cadaveri tirati a lucido dalle misture per imbalsamare. La ritualità funebre, se da un lato va scomparendo, l'America si dimostra custode gelosa di un rito che si impegna, restituendo al cadavere la bellezza vitale, di offrire ai suoi figli l'ultimo giorno di un funerale da vivi, in cui il dolore luttuoso è emarginato in una saletta apposita, per tenere lontano ogni contatto con il laido dipartire. La più grande intuizione di Alan Ball (il già sceneggiatore di "American Beauty") risiede, però, altrove: nell'aver veicolato l'idea che cimentarsi vis-à-vis con la morte vuol dire raccontare della vita. "Six Feet Under" è un lungo peregrinare narrativo intorno ai destini individuali e nell'episodio conclusivo della quinta stagione si schiude uno dei finali più struggenti e laceranti di sempre. Tutt'altro che candidamente, ci ricorda che la qualificazione della vita passa dall'accettazione della sorte ultima dell'uomo:
Tracy: Why do people have to die?
Nate: To make life important. None of us know how long we've got. Which is why we have to make each day matter.
[1] La cosiddetta "morte di sé" (cfr. "Storia della morte in Occidente", Philippe Ariés)
[2] La cosiddetta "morte dell'altro" (cfr. "Storia della morte in Occidente", Philippe Ariés)
[3] "Al di là del principio di piacere" (1920), "Io e l'Es" (1922)
[4] La cosiddetta "morte proibita" (cfr. "Storia della morte in Occidente", Philippe Ariés)
[5] Ad esempio "Mouchette - Tutta la vita in una notte" (1967)