Un'analisi, un altro punto di vista sul film "Io la conoscevo bene", di Antonio Pietrangeli
Nel finale di "Io la conoscevo bene" di Antonio Pietrangeli, accade un fatto particolare, la protagonista, prima di lanciarsi presumibilmente dalla finestra [1], nasconde dalla stanza ogni riferimento tangibile alla sua identità, alla sua "presenza" nella realtà filmica. Qual è il motivo di questa maniacale attenzione verso gli indizi del proprio passaggio in quel monolocale, verso le tracce del suo gesto e verso lo spettatore?
Probabilmente una plausibile risposta si trova nel fatto che da quella finestra non si lancia Adriana, o perlomeno non da sola, da quella finestra cadiamo anche noi, con lei, ma soprattutto con il suo sguardo, che Pietrangeli ha sapientemente, e con delicatezza, sovrapposto al nostro. Lei, Adriana, ci ha aiutato in questa lenta, ma inesorabile immedesimazione, lo ha fatto con gli sguardi, con i gesti, con le parole, i silenzi e lo ha fatto con la costante interpellazione alla nostra residualità filmica.
Ma procediamo con ordine. Questa empatizzazione con l'immagine cinematografica, così espansa nell'atmosfera del film, è conseguenza naturale di una costante accentuazione e capacità partecipativa dell'homo cinematographicus; di una permanenza residuale che ne confonde la memoria e ne condiziona la percezione del circostante. La sovrapposizione dello sguardo, del mondo percepito, dello sconfinamento dell'immagine filmica nella realtà circostante, ha nel film di Pietrangeli una esemplificazione chiara e persuasiva. D'altronde il processo di modificazione percettiva e assimilazione di atteggiamenti altrui ha radici lontane e ben analizzate nel tempo. Basti prendere ad esempio le riflessioni di Mead che a inizio del secolo scorso spiega attentamente la dinamica sociale e psicologica che sottende a questi meccanismi. "È quello di una società di organismi che divengono Sé, prima di tutto prendendo gli atteggiamenti degli altri per se stessi e poi usando i gesti, con i quali hanno conversato con altri, per indicare a se stessi ciò che è interessante nei loro propri atteggiamenti." [2]
In quest'ottica Adriana, nel film di Pietrangeli, presenta un completo, ed esaustivo, inventario di atteggiamenti e relazioni tattili con il mondo, con le persone e con gli oggetti che costellano il film. Lo spettatore, sempre parte attiva della visione, ha la possibilità di assimilare, non sempre consapevolmente, un nuovo sguardo sul mondo.
Il cambiamento, dopo un film, è radicale. Attraversato da immagini e suoni, immerso nell'atmosfera cinematografica il fruitore muta e si modifica inesorabilmente. Uscito dalla sala, luogo deputato alla massima effettività del messaggio sotteso dal film, il suo sguardo sul circostante non è più lo stesso; la sua realtà non è più la stessa, se mai ce ne fosse stata una. Dice perfettamente Kelly come ci sia una sorta di adattamento costante del mondo alla percezione dell'uomo e forse anche il contrario. L'incontro avviene in quella epicurea zona di confine tra la cosa e lo sguardo. "L'uomo osserva il mondo attraverso lenti o schemi (patterns) che egli stesso crea e che cerca di adattare alle diverse realtà." [3] Questa moltiplicazione di realtà è agevolata dal simultaneo, e ininterrotto, proliferare di possibilità che il cinema, e le immagini in movimento in ogni forma mediale, donano allo spettatore, il quale attivandosi aumenta in sé nuove configurazioni percettive. "Disporre di uno schema, per quanto impreciso o approssimativo, è sempre più funzionale di non averne alcuno. Denominiamo costrutti questi schemi che sono utilizzati per conoscere gli eventi. I costrutti sono modalità per costruire la realtà." [4]
Ancora una volta si rende indispensabile rintracciare meglio di qualsiasi metodologia esaustiva, un'apertura di senso soggiacente alla forma cinematografica insita in ogni opera filmica, nonostante, ed è il caso di pietrangeli, ci siano opere che chiarificano meglio queste dinamiche. È nell'evento cinematografico, nello choc prodotto dall'incontro dello spettatore con l'opera – all'interno dell'atmosfera cinematografica che si diffonde nella sala di proiezione – che si genera "realtà possibile". Di quella simbologia connotativa che rende possibili mondi nuovi e ne nitidifica i contorni non si può tracciarne una formatività esaustiva, ma si può sottolinearne la delicatezza. Così come sottolinea Merleau-Ponty.
"Ecco perché la fragilità stessa della tale percezione, testimoniata dal suo dissolvimento e dalla sua sostituzione da parte di un'altra percezione, anziché autorizzarci a cancellare in tutte le percezioni l'indice di "realtà", ci costringe ad accordarlo a tutte, a riconoscere in esse delle varianti del medesimo mondo, e infine a renderle non tutte false, ma "tutte vere", a considerarle non come ripetuti fallimenti nella determinazione del mondo, ma come approcci progressivi." [5]
L'approccio progressivo è una sorta di grado di precisione nel tentativo di dare una visione unilaterale del circostante, di trovare un'unicità di visione che possa adattarsi ad ogni essere vivente. Tentativo in sé, non solamente infondato criticamente, ma completamente lontano dalla complessità e transmedialità imperante. Questo tentativo ci permette altresì di legittimare una poco rassicurante stratificazione di realtà che se da un lato impedisce qualsiasi omogenizzazione esaustiva, dall'altro apre ad una miriade di possibilità esistenziali e percettive. Il cinema nella sua essenza di immagine, astratta da impellenze significanti, si dimostra luogo prediletto di generatività strutturale. L'incontro tra lo sguardo del fruitore e lo schermo della sala, all'interno dell'atmosfera cinematografica, in cui la bidimensionalità dell'immagine si è frantumata, genera nuove possibilità. Il cinema "non soltanto ci ha mostrato altre cose, ma ce le ha mostrate in modo diverso, eliminando dalla consapevolezza dello spettatore la distanza interiore fra lui e l'opera, che fino allora costituiva l'essenza dell'espressione artistica." [6] Nel circolo creativo il confine che separa l'opera dallo spettatore si frantuma, e modificando l'interiorità di quest'ultimo ne accompagna l'immedesimazione. Non sempre avviene senza traumi, ovviamente la memoria riveste un ruolo primario in questa fase compenetrante, ma il film è sempre in grado di avvicinarsi alla sensibilità di chi ha di fronte, o meglio di chi avvolge [7]. Il film diventa qualcosa "di più di un racconto e di più di un soggetto. Il film si stacca dal suo autore e comincia a vivere di vita propria, mutando di forma e di significato a seconda della personalità dello spettatore." [8] Accompagnato in un percorso creativo il fruitore non solo rivitalizzerà una propria intimità inconscia, ma nella partecipazione creativa depositerà in sé elementi residuali utili ad una modificazione sensoriale. D'altronde lo dice perfettamente Tarkovskij in un altro passaggio fondamentale del suo testo. "Chiunque lo desideri, si guardi nei film come in uno specchio, e vi vedrà se stesso." [9] Adriana conosce bene questa problematica, lei oltre a vedersi, come lo spettatore, in uno specchio ha avuto una facoltà ulteriore, forse la possibilità che rasenta la sacralità, quella di vedersi al cinema; luogo dove l'evidente specchio si modifica e adatta con grandissima malleabilità ad ogni sguardo, che si presta ad ogni esigenza, ma sopratutto nella sua essenza persuasiva e residuale. La sua principale capacità sta nel non fermarsi ad una realtà, ad una univoca proposizione di circostante. Anche se apparentemente il film è unico e sempre uguale a se stesso, nonostante le diverse proiezioni [10], è la compartecipazione alla costruzione di realtà che ne rende unico e irripetibile l'evento. Durante ogni singola proiezione il film, in relazione al suo spettatore, "ormai liberato dalla realtà, e di una simultanea autonomia della realtà che vediamo funzionare per se stessa in una prospettiva delirante, cioè autoreferenziale all'infinito. Espulsa in qualche modo dal suo proprio principio, estraniata, la realtà è diventata essa stessa un fenomeno estremo." [11] La realtà si è frantumata in una spirale generativa a-temporale che si ancora ciclicamente allo sguardo, sempre nuovo, dello spettatore.
La moltiplicazione di visioni annienta ogni direzione teleologica della realtà, rende stratificata e aperta ad ogni possibilità la creazione di mondi nuovi, e al medesimo tempo un nuovo sguardo su mondi conosciuti. La malleabilità del circostante, la sua adattabilità ha nel film di Pietrangeli una esemplificazione concreta. Come ha ben sottolineato Canova "è proprio lavorando sullo sguardo di Adriana che Pietrangeli riesce a fornire un'immagine di volta in volta lucida, nitida o grottesca del mondo che attorno a lei ruota e che in lei consapevolmente si riflette." [12] È proprio lo sguardo che si sovrappone al nostro, quello della protagonista, innalzandoci a privilegiati osservatori attivi, dandoci la possibilità di scoprire e vivere empaticamente esperienze altrimenti precluse. Gli sguardi, in questo caso della protagonista e del regista, "che non solo «bucano» la scorrevolezza e la linearità del racconto con la vibrante sensibilità delle loro visioni «altre», ma sottraggono la focalizzazione dei singoli film a ogni possibilità di definizione univoca o di declinazione rigidamente determinata." [13] La difficoltà di rintracciare una sola, ed esaustiva, analisi del film collide con la moltiplicazione di sguardi e di menti che lo percepiscono. Allontanandoci da una visione solipsistica rispetto alla generatività del reale prendiamo, oltre alle ben note teorie del costruzionismo socio-culturale (Kelly; Berger e Luckmann), le profonde riflessioni di Anolli che oltre ad un preciso excursus sulle pratiche edificanti del reale torna ad affermare una sorta di via personale, che poi entra evidentemente in un ambito più complesso, ad esempio il sistema culturale in senso pieno. Come premesso le persone "procedono alla creazione (più che alla scoperta) della loro realtà personale e sociale. L'era postmoderna e costruzionistica enfatizza la percorribilità e la fruibilità (più che la validità) della conoscenza. I soggetti (più che ricevere) prendono parte attiva alla costruzione della conoscenza". [14] Quest'ultima avviene proprio nel momento di incontro con l'opera, nell'istante in cui, confusi nella perdita di collocazione spaziale gli spettatori interagiscono attivamente con la creazione del film.
Apportando il proprio, personale, sistema di riferimento, tra l'altro non sempre conscio, si lasciano deviare dall'interazione attiva con l'opera. La visione esce da una staticità preordinata e si amplia in una commistione di destinazioni non finalistiche che percorrono lo spettatore in questa dinamicità attiva che residua, e deposita, frammenti di costrutti necessari alla decifrazione del circostante. La perturbazione simbolica, in cui lo spettatore, liberato da rigidità convenzionali, può immergersi, ha vari gradi di stratificazione. I confini, tra l'opera e lo spettatore, perdono di consistenza e si dissolvono in una sovrapposizione d'immagini che rende superfluo ogni tentativo di gerarchizzazione. "La permeabilità dei confini del frame di visione, il suo dilatarsi fino a ricomprendere la storia e il mondo di vita dello spettatore, dimostrano il contributo del cinema ai processi di costruzione dell'identità [...]" [15] Non solo Adriana cerca costantemente di costruirsi una vita, ma in questo peregrinare coinvolge anche che la osserva. Il regista è molto attento a descrivere, con pochi elementi caratterizzanti, i vari personaggi che costellano il film, in questo modo non solo coinvolge nella diegesi lo spettatore, ma gli rimanda una potenzialità identitaria all'interno dell'atmosfera cinematografica. La sua visione non è dunque legata ad una comoda passività consumistica, ma è coinvolta da svariati sguardi identitari che si diramano nel film in direzioni sempre inaspettate, basti prendere ad esempio una delle prime scene del film in cui Adriana guarda apparentemente l'incidente di un camion con un ciclista, ma la cui direzione non è in asse con l'accaduto, proprio per sottolineare l'apertura coinvolgente dello sguardo proposto da Pietrangeli; oppure i continui sguardi interpellativi diretti verso la macchina da presa. È in questo modo che il film, e lo spettatore con lui, come sottolinea ancora Fanchi, diventa testimone attivo de "[...] l'eccitamento e la vertigine della visione; la capacità di esercitare un controllo sulla propria esperienza e insieme la sensibilità al fascino delle immagini; la presa di distanza dal testo filmico e contemporaneamente l'investimento sul suo dispositivo come spazio privilegiato di costruzione e di consolidamento delle identità." [16]
Il vortice che si rinnova ad ogni proiezione, per quanto intima possa essere, prova a scardinare, come indicato poco prima, le barriere che separano le varie competenze, da una parte lo spettatore e dall'altra l'immagine sonora in movimento. Il cinema prova ripetutamente a entrare in profondità, a stimolare aree cognitive inconsce e non determinabili – per quanto le neuroscienze si stiano sforzando in tal senso – che rendono in fin dei conti emotivamente fertile ogni visione. Ci sono appelli ad una persistenza della necessaria presa di distanza con l'opera, anche per una salvaguardia di un sé in pericolo da inferenze esterne. Dice Casetti a tal proposito che "[...] il cinema è proprio questo: l'occasione per 'con-fondersi' con lo spettacolo e con l'ambiente, mantenendo però una qualche forma di distanza, se non altro una distanza di sicurezza. Eppure... Il confine è utile, anzi è necessario." [17]
Consapevole della pericolosità di un coinvolgimento che entri in profondità, lo studioso sottolinea quanto indispensabile sia il non con-fondersi completamente con l'opera, proprio per non perdere il riferimento ad una propria identità necessaria alla percezione del circostante. Indipendentemente dalla distanza il film lascia comunque una residualità agente che riconfigura, a sua volta, i confini che lo separano dal fruitore. Può apparire paradossale, ma modificando lo spettatore, il film si rinnova a sua volta anche nei confronti dello stesso soggetto; in questo modo si spiega la continua vitalità di alcuni film.
Uno di questi film è senza dubbio "Io la conoscevo bene" che già dal titolo ci propone un gioco di rimandi in cui si esemplifica la fertile confusione nel bisogno di definizione identitaria. Nessuno può dire con certezza a chi si riferisca in verità il titolo, d'altronde non solo potrebbe essere lo spettatore, Pietrangeli o uno dei personaggi del film, ma potrebbe essere la stessa Adriana a riferirsi a sé in terza persona. Lei, forse, l'ha conosciuta talmente bene, d'altronde l'ha vista anche al cinema, da decidere di eliminarne ogni residuo, e di questo possiamo essere certi, tanto è vero che nel film non ne rimane nulla. In questo rimando costante di significato si cela il potenziale autogenerante di questo lavoro.
Ha specificato molto lucidamente Detassis questa caratteristica del cinema di Pietrangeli, sottolineandone la poliedricità e la non linearità del racconto, proprio per aumentare la possibile immedesimazione del pubblico.
Il cinema di Pietrangeli è qualcosa di più complesso, un oggetto non (ancora) identificato nella nostra storiografia. [...] La sua personale erranza è fatta di piani sequenze o lunghissime inquadrature che divagano assieme ai protagonisti, il disequilibrio è nella frantumazione progressiva del racconto dove i flashback e gli sbuffi di memoria, frequenti e necessari, non irrompono ma gradatamente si fondono e confondono grazie alla macchina da presa che panoramica su un dialogo o un volto per scivolare nel passato. [18]
Non solo la spazialità è continuamente frammentata in una miriade di possibili soluzioni tecniche, ma coinvolge nell'espansione dell'immagine lo sguardo dello spettatore che si trova spaesato nella richiesta costante di riordino di una possibile linearità narrativa. Questo atteggiamento di apertura indirizzato verso una lacerazione sempre scoperta accompagna nelle sue fessure la percezione di chi è coinvolto dallo spettacolo in sala. Il film, ed è in questo esemplificativo il lavoro di Pietrangeli, rimescola gli elementi che ne costituiscono l'essenza senza tregua. La realtà profilmica, che è già dotata di una propria virtualità, si trasforma al servizio di una messa in scena malleabile, a-temporale ed espansa. L'immagine, moltiplicata in ogni sua possibilità, perde un unico riferimento denotativo e si dissolve stratificandosi originalmente.
"E l'arte nella sua funzione più alta, creativa e inventiva, generativa ed energetica, non deve amministrare e governare il già-dato, ma inventare il «da venire»." [19] Per compiere quest'operazione l'homo cinematographicus esplicita le proprie risorse esistenziali che attinge nella memoria esperienziale e visiva, mescolando senza gerarchie precostituite immagini fantasiose a ricordi. La dimensione del sogno, dell'inconscio e della memoria concorrono senza limitazioni alla metabolizzazione dell'immagine filmica.
L'operazione di sovrapposizione diviene persistente nella sua efficacia residuale, non permettendo allo spettatore di decifrarne i confini.
Immerso nel mondo dell'immagine, anche fuori dalla sala cinematografica, si dona al circostante davanti a sé in una costante modificazione percettiva che attinge di volta in volta ad una nuova figuratività. Dice perfettamente Simonigh quanto l'immagine audiovisiva sia alla base delle possibilità offerte allo spettatore di interagire con il circostante, ma ancor più importante culturalmente, "[...] necessaria nei rapporti tra gli esseri umani e tra questi e il cosmo stesso. Perciò possiamo dire che abitiamo il sistema mediale audiovisivo e al contempo ne siamo abitati." [20] Nella continua residualità depositata nell'interminabile e costante esposizione alle immagini in movimento, nell'interazione con le stesse, in cui la decodificazione nello choc dell'incontro produce una profonda modificazione di sé. Il mondo delle immagini e quello circostante [21], la realtà nella sua accezione più semplicistica, si confondono in una espansione a-temporale che condiziona e modifica loro stessi. Immerso in questo movimento che è al tempo stesso centrifugo, di fuoriuscita da sé, e centripeto, il momento in cui metabolizza il film, l'homo cinematographicus rimane in un precario equilibrio di senso, destabilizzante nella sua forma più profonda, ma innocua se superficiale. Lei, Adriana, e ne è una riprova la sua scomparsa, ha perso l'equilibrio, ha lasciato che la confusione dei diversi piani enunciativi si sovrapponessero al punto da perdere la cognizione della propria collocazione, e non solo topografica.
Lo certifica, se mai ve ne fosse bisogno, il finale del film che è una messa in scena plurima. Basti notare che la sua immagine, unica "realtà" presente nella stanza, Adriana la ripone delicatamente nel cassetto, proprio per togliere ogni testimonianza della sua apparenza e venirci incontro. Il suono catastrofico e lo zoom verso il basso fanno il resto, ma di lei, come già sottolineato, fisicamente, nessuna presenza: né durante la caduta, né sul pavimento appiattita. La sua fine era già stata consumata, non tanto per la ridicola figura di fronte alle "amiche" nel cinema, quanto per la presa di coscienza della stratificazione della reale, nemmeno nel luogo più adatto alla sua creazione: la sala cinematografica.
Acquisita quella consapevolezza non resta altro, nessuna aspirazione, nessuna velleità, né tanto meno alcun travestimento. Lì è morta, se mai dovesse esistere la morte nel mondo dell'immagine, Adriana, lì è finita la sua ricerca psicologica, è lì è morto lo spettatore, non quello distratto della sala che notiamo noi spettatori privilegiati, ancorato alla banalità del montaggio di quella sequenza, ma proprio quello che ha potuto empatizzare con lei, essere vagabondo alla ricerca della sua immagine. L'apertura di questo finale, ossimoro che racchiude l'essenza di questo lavoro di Pietrangeli, getta nell'atmosfera cinematografica un grido, un appello, alla non conclusività del cinema, alla sua eternità, di cui l'homo cinematographicus certifica l'esistenza; non esiste tempo, e non esiste spazio nel cinema di Pietrangeli, ma solo finché esisterà anche un solo di questi esemplari.
Apertura residuale
Nel porsi difronte ad un film lo spettatore è consapevole, e forse attratto, della pericolosità di stimolare in qualche modo una memoria personale che non sempre ha voglia di risvegliare. La consapevolezza di questo meccanismo fenomenologico non è ancora del tutto chiara, nemmeno nelle più recenti ricerche sull'argomento. Di meno vaga esiste però una ricerca volta a determinare l'inferenza della memoria nella fruizione della quotidianità. "È incontestabile che il fondo d'intuizione reale, e per così dire istantaneo, sul quale si schiude la nostra percezione del mondo esterno, è poca cosa rispetto a tutto quanto la nostra memoria vi aggiunge." [22] La memoria di cui parla Bergson, appunto, non è la semplice esperienza e conoscenza del mondo, ma quell'insieme di ricordi che si sono costituiti immagine e che non hanno una collocazione temporale lineare. Sono frastagliati, richiamati a seconda della necessità e della situazione, sempre pronti a darci una connotazione al mondo. La memoria, intesa in questo senso, è composta, anche, da residui filmici, che si sono depositati durante le visioni e modificano, profondamente, l'approccio al circostante del soggetto. Non essendoci la possibilità di una topografia esatta della natura e provenienza dei ricordi, ci si limita a suggerirne l'intromissione. Le immagini in movimento si aggiungono alla miriade di stimoli che concorrono alla formazione di una presumibile memoria.
Münsterberg parlando delle modalità di visione sottolinea come l'attenzione sia un atteggiamento fondamentale per quanto concerne la persuasività del mezzo cinematografico delle origini, che ne esalta inoltre la peculiarità. "Ciò che vediamo deve essere significante per noi, dobbiamo unirlo alle idee, arricchirlo con la fantasia. Esso deve riscoprire le tracce delle nostre prime esperienze, stimolare sensazioni ed emozioni, giocare con la nostra attenzione sugli importanti ed essenziali elementi dell'azione." [23] Una guida che aiuti ad interpretare il circostante nella sua eleggibilità simbolica e connotativa, che diriga la comprensione e la decifrazione del, e al, mondo.
Questa simbolizzazione del circostante ha una natura profonda nel cinema perché aumenta la propria emittenza, infatti, non solo lo spettatore adatta il suo universo simbolico a ciò che vede, ma lo trascende, anche, attraverso ciò che vedono i personaggi. Questo rimando interlaccia il simbolo ad una dimensione espansa, proprio nell'atmosfera cinematografica, in cui anche l'ego dello spettatore può finalmente liberasi, e conseguentemente elevarsi, ad un ego condiviso. La difficoltà teoretica, ed esaustiva, aumenta proprio perché [...] l'ellissi e il simbolo, considerati nel loro principio più profondo, non sono al cinema due cose differenti, ma che piuttosto costituiscono la faccia presente (simbolo) e la faccia assente (ellissi) di uno stesso vasto procedimento, attraverso il quale il film, per il solo fatto di dover sempre scegliere ciò che mostra e che non mostra, trasforma il mondo in discorso. [24]
Il visibile porta sostanzialmente con sé anche l'invisibile, parafrasando il titolo di una monografia di Merlau-Ponty, e ne aumenta la potenzialità simbolica. Questo aumentarne la caratteristica connotativa coinvolge, come specificato, svariate soggettività all'interno del contesto cinematografico. Non solo quindi lo spettatore è in rapporto con una soggettività altra da sé, il protagonista, con il suo personale universo simbolico, con il quale si confronta all'interno della diegesi, ma è altresì esposto ad una modificazione personale del proprio. L'incontro, tra lo spettatore e il film, quindi, si moltiplica di appartenenze semantiche connotate ad una simbologia trasfigurata. Questo prolifico interlacciamento tra i soggetti, nel suo sovrapporsi e distaccarsi, lascia, all'interno del fruitore, una residualità che risulta necessaria per la comprensione del suo circostante. Il meccanismo che lentamente conduce ad una residualità filmica ha una sua connotazione sociale, intensa nel più ampio senso possibile. Infatti, come sottolinea Blumer, il soggetto, con l'interazione simbolica verso l'altro, ha già all'interno di sé un'interazione, ancora più importante e profonda, quella appunto con se stesso. Può sembrare paradossale, ma in tante metodologie di visual studies si cerca si omettere questa problematica, che apparentemente può indirizzare verso una visione solipsistica, mentre invece determina un approccio fondamentale per la comprensione delle dinamiche celate all'approccio cinematografico. "L'individuo è visto come «sociale» in un senso molto più profondo – nel senso di un organismo che si impegna nell'interazione sociale con se stesso, dandosi indicazioni e rispondendo ad esse." [25]
In una nuova prospettiva lo spettatore, quindi, ha una visione espansa, sia sul filmico che su sé stesso. Sostanzialmente è una dinamica multipla che conduce ovviamente ad una perturbazione residuale. Dice perfettamente Epstein:
Permettendo all'osservatore di porsi fuori da sé, fuori dal suo spazio e dal suo tempo, il cinema libera – più di quanto qualsiasi strumento abbia saputo fare fino a ora – l'esperienza, la memoria, l'immaginazione e l'intelligenza dell'osservatore dal loro assoggettamento millenario a un unico punto di riferimento, che ne determinava posizione, dimensione, durata e ottica. [26]
Uscendo da sé, e ritornandovi, l'homo cinematographicus non solo compie un viaggio multidirezionale, ma ha anche la possibilità di liberarsi da vincoli che ne determinavano il carattere. Questa spirale costruttiva aperta ad ogni possibilità si amplifica visione dopo visione e porta in una dimensione a-temporale il fruitore. Non sempre consapevole del cambiamento e liberato da pregiudizi esperienziali, si riconfigura costantemente nell'approccio al film. Questo percorso formativo, quindi, ha nell'universo delle immagini in movimento un diretto referente che si inserisce nel contesto del reale e in alcuni casi lo supera.
Lo spettatore in un film di Pietrangeli ha la possibilità, proprio per la caratteristica "apertura" di alcuni suoi film, di inserirsi delicatamente in questo luogo di formatività del reale. Un reale filmico che, proprio per la sua indeterminatezza, si modifica costantemente sia per chi guarda, ma anche per chi agisce all'interno della diegesi. "La forma di Io la conoscevo bene [...] è ricca e complessa proprio perché favorisce una lettura d'impatto assieme ad altre man mano graduate. È tanto calibrata ed efficace nelle caratteristiche di cronaca e documento, da essere interpretabile anche secondo la priorità dell'astrazione." [27] Definizione che si adatta perfettamente alla natura accogliente e cristallizzata di cinema residuale. È nello scarto di significato che si concretizza la partecipazione del fruitore, in cui la sua personale storia, si relaziona e si modifica con quella del film. L'empatizzazione avviene proprio in quell'atmosfera, difficilmente arginabile, in cui la sovrapposizione di sensi modifica, ancora una volta e per tutte quelle in cui il film è visto, il sé più profondo, che poi è quello più distante, di colui che vive il film. Questa spirale generativa, come evidenziato, modifica permanentemente lo spettatore, ma al tempo stesso l'opera. L'autore, con questa narrazione, accoglie l'intimità dello spettatore e lo accompagna attraverso le infinite "letture" a cui si presta. "E, come tutti gli esempi di cinema puro, anche in quest'opera di Pietrangeli concentra su di sé molteplici livelli di lettura, tutti interagenti tra loro e tutti convergenti verso un'unità di senso, che pone questo film nella rara categoria dei capolavori." [28] Questo senso espanso, secondo noi, che giunge attraverso lo choc della visione, in cui si scontrano più o meno delicatamente le varie individualità, oltre a permettere una libertà interpretativa agevola una modificazione percettiva del circostante. La permanenza di residui filmici testimonia quanto la mente dello spettatore sia un filtro percettivo delle immagini del film. Lo spettatore, ad ogni visione, si relaziona alla porosità del visibile e ne filtra l'essenza, ovvero tutte le implicazioni culturali ed esperienziali di cui si fa portatrice. In quest'operazione il film lascia dei piccoli residui filmici all'interno dello spettatore che in questo modo si trova con il "filtro" modificato, con la conseguenza che da un lato ha la modificazione nella percezione del circostante dall'altro, se dovesse riguardare il film, lo filtrerà in una maniera diversa.
Il suo approccio al circostante, di cui il film nel momento della visione fa parte, quindi, si modifica costantemente, e con esso la realtà del mondo. Sostanzialmente il cambiamento avviene ininterrottamente, ma in una cultura prettamente visuale è conseguenza naturale il fatto che tutte le informazioni che sono mediate da immagini abbiano una posizione privilegiata nella formatività del mondo. L'homo cinematographicus si nutre di immagini, le abita e le vive traendone sussistenza. E come sottolinea Dalpozzo in questa prospettiva, quella cinematografica, lo è ancora più significativamente perché "[...] ha un'origine mentale e questa permane e si prolunga attraverso il dispositivo per riprodursi nella mente dello spettatore, nel tempo della sua fruizione fino a oltrepassarla nella memoria (tornando a vivere nella mente di chi l'ha esperita e magari producendo altre immagini e così via." [29] Esattamente ciò che accade nel circolo creativo cinematografico, in cui lo spettatore, immerso nell'atmosfera della sala, si lascia attraversare dall'universo simbolico del film per trarne vitalità, ma anche una nuova lettura sul circostante. Incidendo, a volte anche inconsapevolmente, nella sua memoria il fruitore non sarà mai più lo stesso. La sovrapposizione tra le diverse immagini, quelle mentali da una parte e quelle filmiche dall'altra, innesca una creatività generativa nuova e al tempo stesso allontana il fruitore da una possibile consapevolezza della realtà.
Nella coscienza l'immagine modifica costantemente la percezione del circostante. Lo compie attraverso ricordi, immagini del passato, esperienze, residui filmici e svariati altri stimoli atti a configurare, e tranquillizzare, lo stare nel mondo. Questa concezione di immagine, legata appunto alla memoria personale, si inserisce nella più ampia riflessione sull'intromissione dell'esperienza passata con quella a venire. Risulta alquanto difficile ricostruire la sedimentazione di ogni immagine che l'uomo immagazzina del passato; non solo per una difficoltà temporale, ma ontologica. La sovrapposizione di immagini tratte da ricordi vissuti realmente, con l'evidente trasfigurazione che hanno anche questi, da immagini oniriche, da quelle proveniente da ogni tipo di medium, dalla fantasia, dall'immaginazione e non ultimo dal cinema, rendono vano ogni tentativo di gerarchizzazione dell'immagine del passato. Si rende invece plausibile una effettualità sulla persistenza, e attaccamento, che queste immagini hanno sulla percezione dell'ora, qui, adesso. Basti prendere ad esempio le parole di Boiani che cerca una disanima sulla possibilità di connotazione temporale dell'immagine nel ricordo. "La memoria è, dunque, una sopravvivenza delle immagini passate. Queste immagini si mischiano costantemente alla nostra percezione del presente; ad ogni istante completano l'esperienza presente, arricchendola con l'esperienza acquisita, che aumenta incessantemente finendo persino con il prevalere sull'altra." [30] Sostiene quindi che oltre a riproporsi nella percezione del circostante l'immagine sedimentata nella memoria acquisisce un potere che si intromette prepotentemente nella decodificazione del mondo. Assume in questo modo, e il residuo filmico ne fa parte, il ruolo di protagonista nella potenzialità denotativa di sé nel mondo, ma anche, e forse più importante, di sé di fronte al mondo. "La nostra percezione, per così dire, istantanea del mondo esterno è poca cosa rispetto a tutto quanto la nostra memoria vi aggiunge. Le nostre percezioni sono impregnate di ricordi, ma il ricordo diventa presente soltanto prendendo corpo nella percezione in cui si inserisce." [31] Questo interlacciamento tra i diversi piani della coscienza, come sottolineato, non pretende di esaurire la disanima di una possibile classificazione fenomenologica di intromissione delle immagini ricordo nella percezione, ma ne esalta la persuasività. Il residuo filmico, dunque, entrando di diritto nei referenti primari di una modificazione della memoria, testimonia altresì l'importanza che un'attenta comprensione della sua natura si rende necessaria per una più ampia disanima della funzione del cinema all'interno della comprensione delle dinamiche sociali e culturali di costruzione della realtà, che, pare sempre più chiaro, non ha la possibilità di essere indagata se non con la consapevolezza di una sua complessità di fondo. Per lo stesso motivo il cinema di Antonio Pietrangeli ha una doppia valenza epistemologica, da un lato, infatti, si inserisce nello studio dell'immagine visuale e le sue dinamiche comunicative, dall'altro nel più ampio dibattito delle teorie sulla percezione umana.
Note
[1] Adriana non si compare nell'inquadratura, allo spettatore viene suggerito il suo suicidio con una soggettiva zoomata verso il marciapiede, ma lei, il suo corpo, in volo o esanime a terra, non ci è dato vederlo. Anche nell'ultima inquadratura, quella in cui di vede il monolocale della protagonista, non mostra nulla dei suoi oggetti personali. La sua morte rimane una supposizione dello spettatore, o forse è lo spettatore stesso che si è illuso della sua esistenza, della sua corporeità?
[2] Mead, G. H. [1932], The Philosophy of the Present, Open Court Publishing Co., Chicago; trad. it. La filosofia del presente, Guida, Napoli, 1986, pp. 106-107.
[3] Kelly, G. A. [1955], The Psychology of Personal Constructs, New York, Norton; trad. it. La psicologia dei costrutti personali, Milano, Cortina, 2004, p. 6.
[4] Kelly, G. A. [1955], The Psychology of Personal Constructs, New York, Norton; trad. it. La psicologia dei costrutti personali, Milano, Cortina, 2004, p. 6.
[5] Merleau-Ponty, M. [1964], Le visible et l'invisible, Paris, Gallimard; trad. it. Il visibile e l'invisibile, Milano, Bombiani, 1993, p. 66.
[6] Balázs, B. [1972], Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, Globus, Wien; trad. it. Il Film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino, 1987, p. 39.
[7] Basti pensare alla sala cinematografica con impianto audio dolby, il suono non proviene dalla frontalità dello schermo, ma alcune casse sono poste dietro le sue spalle, di conseguenza lo avvolgono percettivamente.
[8] Tarkovskij, A. [1984] , Zapečatlënnoe vremja, Ullstein, Berlin, trad. it. Scolpire il tempo, Istituto Internazionale Tarkovskij, Firenze, 2020, p. 111.
[9] Tarkovskij, A. [1984] , Zapečatlënnoe vremja, Ullstein, Berlin, trad. it. Scolpire il tempo, Istituto Internazionale Tarkovskij, Firenze, 2020, p. 171.
[10] In verità non esistono due proiezioni uguali di uno stesso film, cambierà sempre la luminosità, il formato della proiezione, le persone in sala e la differente predisposizione dello spettatore, non è possibile avere due proiezioni identiche di uno stesso film.
[11] Baudrillard, J. [1994], Le crime parfait, Paris, Galilée; trad. it. La scomparsa della realtà, Bologna, Lupetti, 2009, p. 31.
[12] Canova, G., Il cinema «inquieto» di Antonio Pietrangeli, in Micciche L., a cura di [1999], Io la conoscevo bene, infelicità senza dramma, Torino, Lindau, p. 41.
[13] Canova, G., Il cinema «inquieto» di Antonio Pietrangeli, in Micciche L., a cura di [1999], Io la conoscevo bene, infelicità senza dramma, Torino, Lindau, p. 41.
[14] Anolli, L. [2004], Psicologia della cultura, Bologna, Il Mulino, p. 36.
[15] Fanchi, M. [2005], Spettatore, Milano, Il Castoro, p. 19.
[16] Fanchi, M. [2005], Spettatore, Milano, Il Castoro, p. 46.
[17] Casetti, F. [2005], L'occhio del novecento, Milano, Bompiani, 2007, p. 261.
[18] Detassi P., Ciao Maschio, in Detassi P., Morreale E. e Sesti M., a cura di [2015], Antonio Pietrangeli, il regista che amava le donne, Roma, Sabinae, p. 35.
[19] De Gaetano, R. [2012], La potenza delle immagini, Pisa, Ets, p. 35.
[20] Simonigh, C. [2020], Il sistema audiovisivo, Milano, Meltemi, p. 77.
[21] La realtà nella sua accezione più semplicistica.
[22] Bergson, H. [1896], Matière et mémoire, Presses Univeritaires de France, 1959; trad. it. Materia e memoria, Editori Laterza, Roma, 2011, p. 53.
[23] Münsterberg, H. [1916], The Photoplay: a Psychological Study, New York - London, D. Appelton e Company; trad. it, Film, uno studio psicologico e altri scritti, Roma, Bulzoni, 2010, p. 94.
[24] Metz, C. [1968], Essais sur la signification au cinéma, Paris, Klincksieck; trad. it. Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1989, p. 155.
[25] Blumer, H. [1969], Symbolic Interactionism. Perspective and Method, Englewood Cliffs, New Yersey; trad. it. Interazionismo Simbolico, il Mulino, Bologna, 2008, p. 47.
[26] Epstein, J. [1974], Alcool e cinéma, p. 77.
[27] Detassis. P, Masoni T. e Vecchi P., a cura di [1987], Il cinema di Antonio Pietrangeli, Venezia, Marsilio, p. 30.
[28] Tagliabue, C., Io la conoscevo bene, in Morelli G., Martini G. e Zappoli G., a cura di [1998], Un'invisibile presenza. Il cinema di Antonio Pietrangeli, Milano, Il Castoro, p. 122.
[29] Dalpozzo, C. [2012], Fuori campo, Padova, libreriauniversitaria.it, p. 119.
[30] Boiani, G., Coscienza del tempo e tempo della coscienza: cinema, biografia, memoria, in Santi R., a cura di [2020], Coscienza individuale e coscienza collettiva nella società contemporanea, Milano, Franco Angeli, p. 91.
[31] Boiani, G., Coscienza del tempo e tempo della coscienza: cinema, biografia, memoria, in Santi R., a cura di [2020], Coscienza individuale e coscienza collettiva nella società contemporanea, Milano, Franco Angeli, p. 91.