Glenn Close spiega le motivazioni che l'hanno spinta a calarsi nei panni (maschili) di Albert Nobbs, cameriere perfetto in un albergo nella Dublino dell'800
ROMA - Seno fasciato, pantalone largo, capelli tirati e nessun sorriso. Signori ecco a voi Albert Nobbs, cameriere perfetto in un albergo nella Dublino dell'800. Uomo solo in apparenza, in realtà donna che da 30 anni si finge uomo, dopo essere stata abbandonata da bambina e violentata: per sopravvivere ha abbandonato ogni identità e non sorride per paura che il sorriso la tradisca. In "Albert Nobbs" di Rodrigo Garcia (dal 10 febbraio nei nostri cinema) ha la faccia di Glenn Close e tutto il suo cuore. Perché? "Perché io inseguo questo personaggio da quasi trenta anni. Lo interpretai a Broadway nel 1982, da allora ho fatto di tutto come attrice, ma non ho mai smesso di pensarci, tanto che, stavolta, ho voluto partecipare alla sceneggiatura ed esserci come produttrice, alla mia età i bei ruoli devi cercarteli, te ne offrono ben pochi. Credo che Albert sia un grande personaggio e la storia, in tutta la sua disarmante semplicità, è molto potente dal punto di vista emotivo".
Che differenza c'è tra il film e la piècé da lei interpretata?
"L'opera teatrale da me interpretata era minimalista. La storia è potente, così come può esserlo un semplice bicchiere d'acqua, che riflette la luce attraverso un processo molto complesso. Anche in questo caso, la storia è semplice, ma tocca dei temi importanti per chiunque e tutti portano il proprio bagaglio di vita e ne escono arricchiti. Spero conquisti gli spettatori a livello internazionale. Un film può farlo".
Ma la eccita l'idea di recitare nei panni di un uomo?
"Sì, ma nell'82 fu Kevin Kline a convincermi. Oggi dal teatro, dove basta mettersi una parrucca, al set è stata dura. All'inizio mi guardavo allo specchio e piangevo".
Che cosa l'affascina di più del ruolo?
"Non affronta solo un problema di identità ma il bisogno di conferme, di sicurezze, punti critici soprattutto per le donne, cui viene insegnato a essere solo ciò che gli altri desiderano. Vale anche oggi, non solo nell'Irlanda vittoriana. Per questo quel personaggio mi è rimasto dentro. C'è qualcosa di molto toccante nella vita di Albert. È un personaggio che mi ha colpito subito. La mia carriera è stata molto intensa, ma non ho mai dimenticato quella storia particolare, che a mio avviso poteva diventare un film meraviglioso".
Che tipo di film?
"La storia di una donna che non vuole finire in un ospizio. All'epoca l'Irlanda era estremamente povera e la miseria era evidente ad ogni angolo della strada, anche accanto al lussuoso albergo della storia. Albert sa benissimo che senza un lavoro finirà per strada e sa benissimo che, pur avendo un lavoro, si può essere licenziati in qualunque momento. E questa paura serpeggia anche fra chi lavora nell'hotel. E fa la sua scelta. Drastica, Disperata. Quando il pubblico incontra la protagonista, questa si è calata nei panni di un cameriere uomo che lavora presso il Morrison's Hotel da molto tempo, talmente tanto da aver ormai perso la propria identità. Questa donna non sa più neanche come si chiama. È una figlia illegittima, cresciuta presso una donna pagata affinché non le riveli il suo vero nome e la tenga lontano dalla sua famiglia d'origine, che non vuole avere nulla a che fare con lei. Pertanto, la lacuna della propria identità è insita nella vita di Albert e aumenta nel corso del tempo, tanto che sin dall'età di 14 anni, inizia a lavorare nell'albergo sotto mentite spoglie. Non ha strumenti per affrontare la vita; ha vissuto tutta la vita in un albergo".
E Glenn Close ha mai vissuto una crisi di identità?
"Sì, dagli 8 ai 20 anni per colpa della mia famiglia. Mi ritrovai solo fuggendo, andando all'università e lontano da casa".