Ci facciamo due chiacchiere con Gianluca e Massimiliano De Serio, i registi torinesi che in questi giorni sono in tour per l'Italia a presentare il loro ultimo film "I ricordi del fiume", presentato al Festival di Venezia del 2015. Parliamo con loro del film, di aspetti produttivi nel loro cinema, ma anche di alcune idee a proposito dell'immagine e de Il Piccolo Cinema, laboratorio cinematografico torinese
Come nasce il film, lo avete già raccontato, ma credo sia interessante partire dall'inizio. Di tutte le storie che ci sono da raccontare, perché questa e non un'altra?
Il Platz sorgeva a pochi passi da casa nostra, nella periferia nord di Torino, da circa 15anni. Era quindi per noi una presenza quotidiana, che costeggiavamo tutti i giorni per andare in centro. I suoi abitanti erano i nostri vicini, che non conoscevamo, se non come "fantasmi" che brulicavano lungo la strada e scompartivano dietro la boscaglia che ci separava dalle case. Quando abbiamo saputo del progetto di smantellamento della baraccopoli, non abbiamo esitato: dovevamo entrare e cominciare a filmare, a trattenerne i ricordi. È stato quasi automatico, istintivo, e di colpo abbiamo bloccato ogni altro progetto e abbiamo cominciato a concentrare tutte le nostre energie su questo. È come se filmare per noi volesse dire, finalmente, conoscere davvero questo luogo e i suoi abitanti. Non è stato un progetto nato a tavolino, meditato a lungo e poi avviato, ma al contrario: abbiamo cominciato a girare senza produzione, poi nel tempo si è concretizzato e ha assunto un'immagine più definita. Gradualmente era sempre più chiaro ai nostri occhi che la vicenda del Platz, e di tutte le vite che lo attraversavano come in un labirinto, ci riguardava intimamente. Infatti ci abbiamo passato quasi due anni, là dentro. Due anni di vita, prima di tutto.
Ecco, mi interessa questa cosa dell'aspetto produttivo: come si porta avanti un film del genere (non solo questo nello specifico volendo)? Voi partite e girate... e poi?
Di solito si parte con un'idea, che si trasforma presto in un sopralluogo. Dopo questa fase, in cui si raccoglie materiale (foto, riprese, racconti, appunti), stendiamo un progetto-racconto in grado di essere presentato a chi può essere interessato (produttore, troupe). Nel frattempo, non ci siamo fermati: siamo andati avanti. La realtà è più veloce del cinema.
L'immersione nel campo, stare con la camera a mano e i piedi nel fango. Ha un valore morale questo cinema? Non voglio spaventarvi, ma mi piacerebbe sapere la vostra opinione in merito. Dove etica ed estetica trovano un accordo? Perché vedendo il vostro modo di girare alcune scene (penso a certi ritratti, o alla camminata finale del bambino) non ho l'idea che mi state fregando come spesse volte succede, dove chi sta girando è più attendo ad avere il tramonto alle spalle del protagonista e beccare il lens flare giusto che a "sentire" la scena. So che è una cosa molto soggettiva, ma riusciamo a capire se è una cazzata?
Crediamo fortemente al valore etico del fare cinema. Di fronte al bombardamento di immagini a cui siamo sottoposti ogni giorno, anche a livello subdolo e inconscio, per noi che produciamo nuove immagini come lavoro, è importantissimo non solo il cosa, ma anche il come lo facciamo. È una questione di responsabilità, nei confronti di tutti: di noi stessi, dello spettatore, delle persone che filmiamo. Tenere il piccolo Cristi al centro dell'inquadratura per cinque minuti, mentre attraversa le macerie della baraccopoli dove è nato e cresciuto, ha a che vedere con la sua identità e con la sua visibilità, che oggi significa sopravvivenza, almeno nella memoria di ogni singolo spettatore. E questa sensazione ce l'abbiamo già quando giriamo, è una questione che investe il nostro corpo - e quindi il nostro sguardo, cioè la nostra camera - e la sua relazione con le persone che accettano di mettersi in gioco di fronte a noi.
Siccome dici che "producete nuove immagini" credete che esista un qualcosa che vada al di là delle vostre capacità nel creare queste immagini, qualcosa che non sia immanente? Non dico a livello conscio o sensoriale, non è tanto il calcolare un inquadratura, renderla perfetta come luce, usare le ottiche adatte etc... ma a un livello più emotivo e sentimentale, ecco magari è quella cosa che dici che sentite sul vostro corpo (sguardo e camera)... come ve la spiegate questa cosa?
Siamo fatti delle nostre esperienze: visive, cinematografiche, di vita. Tutto questo passa in ogni istante della vita di ognuno, e se fai un film è come ogni volta lasciare cadere una goccia distillata della tua vita, che va incontro a quella degli altri.
Nella recensione che ho scritto del vostro film in un passaggio dico una cosa in cui credo fermamente, vorrei però capire se ha senso anche dal punto di vista dei registi: "Il cinema documentario ha necessariamente bisogno di tempo per elevarsi, per poter restituire la vibrante realtà". Il tempo a cui mi riferivo è il vostro passato nel campo, credo che non si possa, anche solo per rispetto, fare un film del genere stando una settimana dieci giorni fra le baracche. Quella cosa che raccontate deve essere vissuta (certamente dando alla parola un'accezione filtrata dal lavoro documentario). No? Ma il tempo è anche il tempo del film, che ora è uscito nella versione breve da 90 minuti, io ho visto quella da 140, la prima era da 180. Sinceramente credo che il film potrebbe durare anche 4-5 ore. I soliti noti, che credo amiate, Wang Bing e Lav Diaz ci dicono che si può dilatare agli estremi il tempo. Mi raccontate come avete deciso la durata e perché. Si potrà mai vedere la versione estesa?
Il tempo è un fattore fondamentale, anzi forse è la variabile principale del cinema. E nel documentario non si tratta solo di tempo filmico, ma di quel tempo biologico necessario al film per prendere vita. Avremmo potuto entrare nel Platz per qualche giorno e "rubare" immagini e volti, ma sarebbe stato, appunto, un furto. Per noi, invece, era importante sentire la vita che pulsava, e condividere con le persone che filmavamo un'esperienza nuova, per tutti, in cui il cinema diventa il perno, lo strumento, il ponte, per la creazione di una memoria condivisa.
Sulla durata del film, crediamo che ogni film abbia la sua necessità. Forse come dici tu "I ricordi del fiume" potrebbe durare tantissimo di più, e di materiale ne abbiamo abbastanza, circa 300 ore di girato... La versione da 96', tuttavia, crediamo sia quella che arriva a tutti, più scorrevole. Narrativamente tiene di più, focalizzandosi maggiormente sulla parabola del Platz nello scorrere del tempo, con la sua predestinazione a morire (come la vita, come dice Cristi in un dialogo centrale del film), a discapito di una "dispersione" nel fiume delle vite che invece usciva di più nella versione lunga presentata a Venezia. Però per fortuna le due versioni esistono entrambe e possiamo scegliere quale far vedere a seconda del contesto. In ogni caso l'anima del film è la stessa, e la sua natura labirintica e frammentata - come la memoria - ha facilitato un rimontaggio senza stravolgerne il senso. Sicuramente la versione più breve ha permesso l'uscita del film nelle sale, il che è fondamentale per la vita stessa del film. Poi ci siamo anche noi, che quando incontriamo il pubblico ne approfittiamo sempre per raccontare le tante cose vissute al di là del film, quella parte sommersa dell'iceberg che è fatta di vita, relazioni, emozioni, senza le quali la "punta" (il film) non sarebbe mai emersa.
Ecco dicevamo prima di come si sviluppa produttivamente il film... E dopo che si è realizzato come va in giro? Siete stati a Venezia, poi dopo tanti mesi esce nelle sale ma per pochissimi giorni qua e là... un film del genere può aspirare a una distribuzione più massiva? Il pubblico come risponde alle vostre proiezioni?
Normalmente prima di proiettare un film, documentario o di finzione, la produzione lo mostra ai selezionatori dei festival. Il primo festival importante che è interessato ad avere un'anteprima del lavoro, la avrà. Poi come un effetto domino gli altri festival chiedono il film, o la distribuzione, o produzione, o noi stessi lo spediamo ad altri festival, rassegne, ecc. La distribuzione de I ricordi del fiume è stata davvero sorprendente, per un documentario di questo tipo. A Torino doveva stare solo una settimana e sarà in sala un mese, avendo avuto molto successo. A Milano solo due giorni, ma a tre settimane è ancora in sala. A roma nell'arco di un mese ci sono state diverse proiezioni, in due cinema differenti. A Firenze lo hanno triplicato in programmazione. A Perugia una settimana di tenitura, ad Alessandria, Foggia, Mantova, Messina, Catania, Cagliari, Carbonia ha fatto una o più proiezioni. E sta ancora girando molto. Da ottobre ci sarà un secondo tour più capillare. Insomma, siamo molto soddisfatti. E il pubblico spesso è più aperto degli stessi distributori, o di molti esercenti. La media di spettatori è sempre molto alta, e cresce dove c'è una tenitura, dove esiste la possibilità di un dibattito, di un passaparola, di un'esistenza vera del film.
Ricordo che quando avete iniziato il film spesso ci vedevamo al Piccolo Cinema, e molti del collettivo hanno lavorato al film Diana Giromini, Guido Zingari, Giovanni Corona (credo sia giusto citare loro, come anche gli altri). Volete raccontare un po' che cosa è il Piccolo, come funziona e quali sono i suoi obbiettivi?
Il Piccolo Cinema è una società di mutuo soccorso cinematografico, nata quattro anni e mezzo fa innanzitutto dal nostro desiderio di condividere la passione per il cinema in modo libero e aperto a tutti, in una zona di Torino molto periferica (a pochi metri dal Pltaz) dove non c'è mai stato nulla del genere, neanche un cinema normale. Ogni martedì, senza interruzione, facciamo proiezioni di film e incontri con autori, in un'ottica un po' diversa della programmazione, che p infatti "partecipata" con pubblico. Ogni singolo spettatore, infatti, può suggerire o proporre in modo più concreto dei film o cicli di film, a patto che si prenda la responsabilità di curarne la tenuta e la qualità, che poi noi organizziamo in "tricicli" e calendarizziamo. In questo modo si è formata una vera e propria comunità di appassionati, dallo studente del dams, all'anziano del quartiere, allo spettatore casuale, un esperimento unico di vita culturale dal basso. Inoltre facciamo anche dei corsi, che abbiamo chiamato dis-corsi (in antitesi ai consueti corsi di cinema), per i quali chi ha una competenza riguardo uno degli aspetti del fare cinema, può metterla a disposizione degli altri, in una forma circolare e non frontale, e a prezzi simbolici se non, a volte, gratuiti. Sono stati fatti negli anni disc-corsi sul montaggio, il suono, la regia, il documentario, il trucco cinematografico, ecc. Da questi dis-corsi sono nati dei professionisti che ora lavorano a pieno titolo nel cinema, così come sono nati dei film, corti e documentari, che hanno girato festival e vinto premi. Da poco abbiamo cominciato anche a fare le "Domeniche di mutuo soccorso", dove un regista alle prime armi può presentare il suo progetto di film a una platea di professionisti anche loro alle prime armi, o di semplici appassionati, e chiedere un aiuto allo sviluppo, un parere, un confronto. Una forma di produzione senza i vizi e le costrizioni della produzione. Un mutuo soccorso cinematografico, appunto.
Stiamo a Torino e parliamo un attimo di Torino. Mi piacerebbe un giorno mettere insieme alcuni racconti di cinema dei registi/autori che orbitano nella nostra città. Voi credete che questa città abbia, un questo momento, qualche fermento culturale/cinematografico come si dice in giro, o ce la si suona e si canta? Voi girate parecchio per i vostri film e magari avete un po' il polso della situazione...
Ma magari questa è una domanda a cui è meglio non rispondere (rido ndr)
Torino è un gran laboratorio di immagini, di storie, di professionalità. Ormai sono alcuni anni che molti esordienti, società di produzioni giovani e innovative, e un tessuto di festival costante tutto l'anno sono i fili di un discorso cinematografico in divenire, fertile e ricco di contaminazioni.
Grazie per non aver risposto alla domanda (rido ndr)
Prego!