Ondacinema

Intervista ad Alessandro Abba Legnazzi

Alessandro Abba Legnazzi è il regista di "Rada", film vincitore del Torino Film Festival nella sezione Italianadoc

Ciao Alessandro, mi racconti cosa hai fatto prima di "Rada"?
Questo è il mio secondo lavoro, se escludiamo il mediometraggio di fine master di regia in cui documentavo un corso di vela per non vedenti. Nel 2012 ho girato "Io ci sono" in cui ho seguito per un anno dei bambini di una scuola elementare di Brescia. In realtà è il primo di finzione anche se già con i bambini avrei voluto lavorare in questo modo, preparando con loro la sceneggiatura, ma poi per varie vicissitudini ho virato su altro. Ma è stato propedeutico alla preparazione di "Rada".

La prima cosa che mi ha incuriosito di "Rada", ovviamente, è il luogo. Come  hai trovato la casa di riposo per ex marinai?
Semplicemente per caso, in un viaggio con amici mi son trovato a passare per Camogli e facendo una passeggiata ho visto questo enorme stabile che sta a strapiombo sul mare con un cartello che dice "Casa di riposo per gente di mare". E io non avevo mai sentito parlare di una cosa del genere. Però, come dire, c'è in me, da quando son bambino, una certa fascinazione per il marinaio come figura quasi mitica. E quindi l'avvicinamento è stato naturale. Avevo voglia di scoprire quel mondo, di avvicinarmi a quell'aura malinconica di chi è costretto a terra dopo una vita in mare.

E come è stato l'approccio?
Ho iniziato ad andare lì per conoscere quelli che ci vivevano. Per tutta l'estate del 2012 li ho frequentati assiduamente, ho ascoltato le loro storie incredibili e ho imparato i loro ritmi e le abitudini. Mentre ero lì mi sono accorto che raramente avevano visite, che vivevano una solitudine particolare. E allora mi è sembrato interessante fare un lavoro con loro e non su di loro, inglobarli nel progetto e scrivere insieme delle cose. Non voglio però far la parte dell'assistente sociale! (ridiamo) La questione era spostata a livello creativo, perché insieme abbiamo costruito alcune scene. Poi c'è stata una lunga pausa per questioni personali. E son potuto tornare da loro a Giugno del 2013. Sinceramente avevo paura di aver perso tanto di quello che avevo costruito l'anno precedente, e invece loro erano lì che mi aspettavano, e si ricordavano tutte le cose che avevamo detto. Quindi è stato facile riprendere il discorso.

Quest'ultima cosa perché credi ci tenessero al film?
Io son convinto che del risultato finale a loro non fregasse niente (ride). Ma erano contenti di lavorare insieme per qualcosa che li riguardasse e di una routine nuova.

Come hai scelto i sette personaggi del film?
Ad alcuni non interessava partecipare, altri non funzionavano molto bene dal punto di vista dell'immagine. Quindi anche qui è una scelta che è venuta del tutto naturale.

Quello che esce fuori forte nel film è l'empatia umana, non c'è nel film uno sguardo dall'alto ma sei sempre al loro livello.
Semplicemente è il risultato dell'aver lavorato davvero insieme. C'era un continuo scambio fra noi e loro. E si è creato un rapporto molto bello.
Poi come ho detto, tutto era scritto, ma poi certe volte ce lo dimenticavamo e si andava avanti a braccio, noi e loro.

Parlando invece della questione produttiva, come si colloca questo film? La troupe com'era composta?
Diciamo un film piccolo girato alla kamikaze. Io avevo l'attrezzatura, e siccome non avevamo voglia e tempo di cercar finanziamenti ci siamo buttati. Abbiamo girato per 17 giorni, in tutto una quindicina di ore di materiale. Non ho voluto girare molto più di quello che avevamo scritto. Ero con Matteo Tortone che faceva la fotografia e Alessandro Baltera l'audio. Enrico Giovannone ci ha seguiti un po' più da lontano ma anche lui era con noi. Hanno fatto tutti e tre un lavoro straordinario.

Iniziato il film ho pensato: "guardalo qui un altro giovane regista che gira in bianco e nero"
(Ridiamo)

Mi spieghi la scelta? Perché quando è finito ho pensato che fosse invece una scelta azzeccata. Prima di tutto per una questione poetica perché ha un sapore evocativo e fiabesco davvero eccezionale, poi per un motivo strettamente estetico cioè per evitare di mostrare i colori di una casa di riposo che sinceramente immagino molto difficili da rendere in video.
Esatto, i motivi erano proprio quelli. Io non sono amante del bianco e nero e in realtà il film è stato girato a colori per lasciarci aperte entrambe le strade. Insomma era comunque nell'aria e poi, in sala di montaggio, con Enrico abbiamo scelto di virare tutto in bianco e nero. Proprio per il motivo che dici tu. Il bianco e nero secondo me alla fine umanizza molto i marinai ma allo stesso tempo li rende anche eroici.
E in più le pareti erano tutte azzurrine e i neon sparavano di brutto! (ridiamo).

Io nello scrivere del tuo film dico che è un "documentario di finzione" perché non è fiction anche se c'è una sceneggiatura ma nemmeno un documentario.
Sì, volevo proprio la sospensione fra le due cose. In qualche modo è tutte e due. Oppure una sorta di preparazione a qualcosa che deve venire.
Si tratta sicuramente di un film piccolo e imperfetto. Ma che fotografa bene quello che è successo.

Ora che il film ha vinto, quali sono le tue sensazioni?
Le sensazioni per la vittoria sono un misto di felicità e tristezza, di alti e bassi. Felicità per il risultato, per avere cementato ancora di più il legame profondo con i miei amici Matteo e Enrico e per vedere che tanta gente ha apprezzato il lavoro che ho fatto. Tristezza e malinconia per aver perso in questa avventura uno dei miei più cari amici, Alessandro Baltera a cui ho dedicato il premio ricevuto e che continuerò a ringraziare per l'amicizia che mi ha dato e l'entusiasmo e il lavoro straordinario che ha fatto per questo film. Ad Ale devo anche il titolo del film: é lui che in una sera prima di iniziare mi dice: Abba questo film devi chiamarlo Rada! E Rada sia!





Intervista ad Alessandro Abba Legnazzi