Gli interpreti - Pierfrancesco Favino, Marco Giallini - l'autore, Carlo Bonini, e il regista, Stefano Sollima, raccontano il film "Acab - All Cops Are Bastards"
ROMA - Cobra, Negro, Mazinga e tutti quelli che tremano oltre la visiera abbassata. Quelli che stanno in strada a combattere le battaglie metropolitane contemporanee, stadi, cortei, sgomberi e tutto il sangue dell'oggi. Quelli che sono "fratelli" tra loro perché quando hanno menano si sentono soli, "il cuore che batte a mille, l'adrenalina che schizza e solo i tuoi fratelli con te in quel momento nella battaglia". Quelli che chiamano "celerini", con disprezzo. Stavolta lo sguardo è il loro. Dalla loro parte della barricate e oltre le loro visiere abbassate. Ed è "
ACAB", che sta per "All Cops Are Bastards", tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Bonini (Einaudi), basato su una storia vera, firmato da Stefano Sollima, con Piefrancesco Favino, Filippo Nigro e Marco Giallini. Il film
zooma sulle gesta violente e esasperate di tre celerini amici, sullo sfondo l'Italia dal G8 di Genova fino alla morte di Gabriele Sandri. Un film che racconta la realtà cercando i codici del genere perché, come chiosa Sollima, "l'idea era di fare un film di genere ma con intelligenza, cioè un film che affrontasse lateralmente alcuni temi sociali ma seguendo il cinema di genere, come era il poliziesco nei Settanta. E' chiaro che il film che vien fuori è molto maschile, adrenalinico, non è '300' ma non può non far pensare a quel tipo di film".
Ne viene fuori, però, anche un'immagine violenta e moralmente sbertucciata della Celere. Reazioni? "Dalle forze dell'ordine non abbiamo avuto contributi particolari, non hanno messo a disposizione mezzi o caserme ma bisogna anche dire che non hanno ostacolato il film. Quando abbiamo girato davanti al Parlamento e al Viminale lo abbiamo fatto senza il loro ostruzionismo. Hanno visto il film, ma non ci sono state reazioni ufficiali, solo risposte personali. Per alcuni era un film che non dava un'immagine corretta del reparto della Mobile di oggi, per altri sì. D'altra parte non ci aspettavamo che lo abbracciassero".
Ma come si sono preparati gli attori, fisicamente e non solo, vivendo, come dice Bonini, il "passaggio emotivo" senza nessun suggerimento se non quello delle pagine?
"Io mi sono addestrato, cioè preparato a livello fisico e ho cercato di capire quali sono le tecniche di difesa e di assalto, si tratta di un lavoro che ha a che fare col corpo - dice Favino - D'altra parte puoi anche prepararti filosoficamente ma poi, davanti a certi eventi, il corpo risponde a suo modo. Puoi anche essere pacifista, ma se qualcuno viene a minacciare la tua famiglia con la pistola tutto cambia. Dirò di più: stare dietro uno scudo, con gente che ti spinge da un lato e una folla di gente che ti arriva davanti, ti stimola qualcosa che ha a che vedere con la tua aggressività. Voglio dire che ora ho un'esperienza in più per capire come si sta dall'altra parte della barricata".
E Nigro: "Il pregiudizio sui celerini ce l'ho ancora perché è gente abituata a vivere con la violenza e i limiti che si impongono non sono sempre chiari. Tra l'altro i nostri non sono celerini qualunque ma reduci dal G8. Ma ora la mia percezione è cambiata. Nelle simulazioni che abbiamo fatto ho capito, come nn avrei mai immaginato prima, che è umano rispondere a chi ti aggredisce e farlo con odio e d'istinto. Per non dire della preparazione fisica che ci ha uniti ma che ci serviva anche perché queste persone vivono dentro le caserme, dentro un universo chiuso e sul loro corpo".
"Effettivamente nonostante le mie tante fratture ero molto in forma e mangiando riso e tonno ho messo su muscoli - rincara Marco Giallini, qui il veterano del gruppo - Io pregiudizi sul reparto celere non ne avevo, perché con loro non ho mai avuto a che fare ma posso dire che è stato davvero un film duro. Spero si consideri che si tratta di gente che vive una guerra civile quotidiana per due lire di stipendio".
Ma, sia chiaro, l'intento è allontanarsi da una lettura solo in bianco e nero della realtà e il capovolgimento del punto di vista serve solo a questo, il mettersi dietro la visiera serve solo a rendere più complicato il racconto: serve a fare i conti con una parte di noi che rifiutiamo ma che esiste. Come dice Sollima: "Il materiale, il libro, su cui noi abbiamo lavorato esiste da tempo e i fatti di Genova non volevamo raccontarli perché quello che accadde lì è solo un fatto eccezionale. Il film vuole raccontare la rabbia e l'odio non speciale ma quotidiano, quello che ci riguarda ogni giorno".
E Bonini: "Il rischio morale? Se scrivi un libro o fai un film devi liberarti da questo ricatto, altrimenti finisce che non racconti mai nulla. Quando io ho cominciato a scrivere il libro ho dovuto fare un'operazione su di me perché c'erano persino delle cose che a me dava fastidio ascoltare dai tre celerini. Penso che chi legge o va al cinema riesca a pensare. D'altra parte è difficilissimo generalizzare. Se dovessi scegliere chi mandare in uno stadio non manderei tre crocerossine, dunque è ovvio che ci sia una sorta di attitudine. Ma non c'è somiglianza politica. Tutti i celerini incontrati da noi erano del tutto diversi politicamente e loro sono centinaia di migliaia. Alcuni corretti, altri scorretti. In questo senso non abbiamo criminalizzato nessuno, abbiamo mostrato pezzi di nostra storia raccontati con correttezza, evitando lo sguardo troppo ideologizzato". E Favino: "Il problema non è la morale, è il moralismo. L'atteggiamento del film è morale che non è una parolaccia. Morale significa raccontare una cosa realisticamente, il moralismo è l'opposto. Voglio dire che questo film, al di là di ogni moralismo, ci insegna che la violenza del celerino riguarda tutti noi, non releghiamo solo a frange estremiste la violenza. E' di tutti noi".