I registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza raccontano l'exploit di "Salvo", il film che ha stregato Cannes senza avere ancora un distributore in Italia
ROMA - Un killer mafioso che affonda in una solitudine silenziosa e uccide freddamente, una cieca che riacquista miracolosamente la vista, una Sicilia infernale, qualche morto ammazzato e, in tutto questo, un innamoramento. E il piccolo grande film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, "Salvo", è servito. Comprato da un mucchio di distributori stranieri, dall'Australia al Brasile, dalla Francia all'Irlanda prima ancora che vincesse allo scorso festival di Cannes ben due premi e acquistato dagli italiani invece solo dopo, cioè fuori tempo massimo (per evitare la figuraccia), il film, prodotto da Massimo Cristaldi e Fabrizio Mosca, arriva sui nostri schermi "incredibilmente per caso, anche se un film già selezionato a Cannes avrebbe dovuto trovare già da tempo una distribuzione, invece niente - dice Cristaldi - In qualunque paese del mondo non sarebbe accaduto, c'è stato bisogno di due premi prima che una distribuzione arrivasse. D'altra parte, i due registi avevano già fatto un corto, 'Rita', premiato con moltissimi premi, ma nessuno li ha aiutati a esordire perché l'Italia si muove in un bieco conformismo. Appena ti dirigi su qualcosa di diverso, vieni fermato. Vanno avanti invece tutte le commediole di finto successo che poi magari son poco viste ma che intanto prendono magari anche soldi ministeriali. RaiCinema, per esempio, investe ma non si mai quanto , cosa che invece su RaiFiction non accade perché si hanno dati e numeri precisi. Ora per noi produttori è difficile andare da RaiCinema e chiedere il perché e il senso delle loro scelte. Ma il loro è un monopolio, dato che Medusa ormai è scoppiata. Sky investe molti soldi nel cinema italiano, ma lo fa solo a film ultimato e dopo che sono usciti in sala, e in questo modo aiuti il distributore, non il produttore che ha bisogno all'inizio dei soldi. Di fatto stiamo prendendo il giro il nostro pubblico proponendo sempre e solo le stesse cose".
È invece un film che non somiglia a nessun altro, questa storia di un killer che dice poco ma lo dice sinceramente, che è una macchina da guerra ma è vero in un mondo del tutto falso e in mezzo a boss sentenziosi, filosoficamente arroganti, al limite del parossismo. Ma è costata tempi lunghissimi... "Prima abbiamo lavorato sul copione per dare indicazioni chiare su come volevamo mettere in atto il tutto, scena per scena, poi abbiamo cercato di tradurlo in immagini - dicono i registi - Certo la gestazione è stata molto lunga, ma siamo riusciti alla fine a fare un film come lo volevamo. Esattamente". E cioè? "Dopo il nostro insoddisfacente lavoro televisivo, il desiderio di fare un film ci ha spinto nella nostra città, Palermo, e l'idea di partenza era l'incontro tra due cecità, quella fisica di Rita e quella morale del protagonista. Dall'incontro tra queste due cecità nasce la speranza di una luce, di un cambiamento".
Perché proprio questa storia? "Siamo stati ragazzini negli anni Ottanta a Palermo, quando la si descriveva come Beirut e a un passo da dove fu ucciso Rocco Chinnici. I vetri delle nostre finestre tremarono, c'era un cratere a un passo da noi, ma per noi era tutto normale, ci preparavamo con la famiglia ad andare al mare e facevamo finta di non vedere. E questo è il punto da cui volevamo partire: scegliere in una città come Palermo se vedere o non vedere, se vivere semplicemente o scegliere per cosa vivere".
Ma perché scegliere proprio un palestinese, Saleh Bakri, per il ruolo del sicilianissimo Salvo? "Lo avevamo visto in alcuni film in cui non parlava mai, ma riusciva a fare trasparire anche dal silenzio la sua tormentata emotività. Poi volevamo un corpo forte che occupasse lo schermo con molto carisma, pensavano a Jean-Pierre Melville, ai noir francesi, ad attori come Alain Delon. E non ci ha preoccupato il fatto della lingua, perché parla poco e perché è portatore di un sentimento di forte estraniamento dalla realtà in cui è calato. Dunque, Saleh ha studiato la lingua , anche perché noi volevamo evitare il doppiaggio, ma non ci interessava che avesse proprio un accento palermitano. Mentre tutti gli altri intorno dovevano averlo, dato che era il solo rifermento a una Sicilia e a una città che si vede poco. Vale anche per Luigi Lo Cascio, reso irriconoscibile e affascinato dal potere del killer".
E come avete lavorato sull'idea di una ragazza cieca che miracolosamente riacquista la vista? "La cecità, come la riacquisizione della vista, era fondamentale per la storia. Ma volevamo evitare effettacci, allora abbiamo studiato a lungo le cecità di origine neurologica e abbiamo capito che c'era un modo, la protagonista ha lavorato a lungo con non vedenti, l'abbiamo anche costretta a periodi di cecità prolungata e per rendere tutto più verosimile abbiamo voluto che indossasse lenti accecanti. Quindi ha girato con queste, per cui il suo sguardo resta fisso e immobile, l'iride non si apre e non si chiude".
E, dal canto suo, Sara Serraiocco spiega: "È stato difficile recitare con queste lenti dolorose e lavorare senza vedere. Poi, anche il lavoro sul corpo è stato faticoso e ho trovato dei punti di congiunzione con alcune ragazze cieche che ho conosciuto. Ho lavorato anche sulla dizione, essendo non siciliana ma pescarese".
E il prossimo film? "Abbiamo in mente un paio di storie siciliane. Difficile dire se arriverà o meno una terza decisione. Confessiamo che dopo esser stati in compagnia di questo film così a lungo, dopo Cannes, volevamo un po' staccarci. Ma il film è andato meglio del previsto, quindi per ora lo accompagniamo in molti festival. Poi a ottobre ci fermiamo, stacchiamo i telefoni e cominciamo a lavorare su altro". Sempre insieme? "Sì, questa è una certezza".
Sarà ancora Daniele Ciprì a occuparsi della fotografia? "Difficile dire, dato che Ciprì ti può dire solo ciò che si farà da qui a due giorni. Lo speriamo, ci piacerebbe tanto, ma pensiamo anche a Dentici, un altro siciliano con cui già abbiamo lavorato molto bene". E il resto è attesa.