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Abbiamo intervistato il regista Daniele Vicari, che ci ha offerto alcune interessanti riflessioni sulla contemporaneità (non soltanto) cinematografica

Quello di Daniele Vicari (1967) è un percorso formativo e professionale tra i più interessanti del panorama nazionale. Dopo aver iniziato a lavorare nel campo della critica cinematografica è poi passato alla regia, prima con alcuni cortometraggi, poi lungometraggi, tra i quali "Diaz" (2012), "Sole cuore amore" (2016) e, ultimo in ordine di tempo, "Orlando"(2022). Anche la serialità rientra tra i progetti di cui si è occupato. Ma non è finita qui, perchè il regista di origini abruzzesi si è cimentato anche nella scrittura ed è fondatore e direttore artistico della Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volontè. Lo abbiamo intervistato sul suo ultimo film e sul libro: "Il Cinema, l’immortale", uscito per Einaudi nel 2022.

In uno dei capitoli del libro accenni alle motivazioni alla base della realizzazione di un film: esprimersi, comunicare, convincere. Per Orlando quale hai sentito con maggiore urgenza e come l'hai tradotta sul piano delle immagini e del racconto? 

Orlando è un film che ha avuto una strana gestazione, come tutti i miei film o quasi tutti, molto lunga e piano piano sono entrato in contatto con tutto quello che mi è successo intorno, per cui la traduzione del racconto da un punto di vista della messa in scena, delle scelte di stile e della scrittura è avvenuta con una totale, estrema libertà, che il film manifesta in tutte le sue forme. Il film ovviamente può piacere o meno, però non ha delle caratteristiche tecniche diciamo standard rispetto al cinema che in questo momento viene fatto. Innanzitutto è quasi completamente ambientato all'estero, in Belgio. Non è una location legata ai problemi di carattere produttivo perché il film racconta la storia di un uomo che fa un viaggio che potrebbe essere quello definitivo della sua vita. Poi da un punto di vista tecnico e di stile, cioè la scelta, per esempio, di usare grandangoli, è legata al fatto che noi oggi utilizziamo i cellulari e quindi guardiamo il mondo attraverso i grandangoli, per cui io ho voluto raccontare la storia di Orlando con lo sguardo che in qualche modo tutti quanti noi ora abbiamo. Ho insomma proceduto in questa maniera facendo entrare nel lavoro tutto il percorso che il film stesso mi ha imposto negli ultimi anni.

Com’è nata l’idea di Orlando?

Il film è nato in Puglia: un signore fermo nella piazza del paese mi si è avvicinato e mi ha raccontato la sua vita, quella di un uomo che non avrebbe mai voluto emigrare, invece per una serie di vicissitudini in realtà è emigrato ed è rimasto per quasi 50 anni in Svizzera. Mentre lui raccontava questa storia, mi sono reso conto di essere il primo nella mia famiglia, di tre generazioni, a non dovere migrare. In particolare mio padre - oltre che mio nonno che è andato, ha vissuto e lavorato in Belgio - ha vissuto e lavorato in Svizzera, tanto che lì ha conosciuto mia madre. Perciò in quei momenti ho deciso di raccontare la storia di un uomo che appunto non ha mai voluto emigrare: lo spunto me l'ha dato questo signore anziano di cui non so nemmeno il nome. Nel mondo, di persone che non vogliono emigrare ma che sono costrette in qualche modo a spostarsi anche definitivamente, ce ne sono appunto molte. Mi è sembrato che questa fosse la condizione dell'umanità in questo momento, per cui Orlando è diventato il simbolo di quest'umanità che vorrebbe restare dov'è, ma non può. È un’umanità deterriorializzata, come si dice anche dal punto di vista filosofico. Orlando è un uomo molto ben piantato nella sua terra e che la ama, ma che per motivi contingenti deve andare altrove e deve trovare anche lì un equilibrio, cosa non facile a 75 anni. Tuttavia è coriaceo e quindi potrebbe anche farcela… 

Michele Placido non necessità certo di un casting, ma per selezionare la giovane protagonista che criteri hai scelto?

Ho fatto una lunghissima sessione di provini con Sara Casani e Laura Muccino. Abbiamo visto bambine ovunque in Europa che, oltre ad essere bilingui (almeno italiano e francese), sapessero anche pattinare, e comunque avessero delle caratteristiche tali da essere considerate delle attrici, perché per confrontarsi con uno straordinario attore della nostra cinematografia, uno dei più importanti e uno anche dei più solidi, non bastava trovare una bambina che potesse essere per così dire accattivante oppure credibile. Era necessario trovare un'attrice, quindi il criterio vero che abbiamo seguito era cercare un'attrice di 12 anni per tenere testa a quel grandissimo attore che è Michele Placido.

Lise e Orlando sono personaggi poi così diversi?

Lise e Orlando sono due facce della stessa modernità: la nostra contemporaneità è sincretica, poichè vi convivono persone molto diverse tra di loro per provenienza oltre che sociale anche territoriale, con lingua e cultura diverse. Questa caratteristica è estremamente interessante. Piuttosto, una cosa che trovo abbastanza sconcertante è che la nostra cinematografia quasi mai tiene in considerazione i racconti generazionali, cioè racconti di incontri tra persone molto giovani e anziane con queste caratteristiche. Questo è purtroppo una tendenza della cinematografia che ha abbracciato dei moduli narrativi abbastanza netti che escludono film come Orlando. Il mio film, infatti, ha fatto molta fatica ad essere realizzato. La mia produttrice Marica Stocchi ha fatto una battaglia non semplice affinchè venisse in qualche modo accettato come si suol dire dal sistema della distribuzione, dai finanziatori, perché è un film che non si gode ai festival, perché non si colloca in un genere prestabilito. E allora questa coesistenza dei due personaggi così apparentemente differenti, ma così sostanzialmente simili, che raccontano secondo me molto bene la complessità del presente, in qualche modo ha messo in crisi diciamo le persone che avrebbero dovuto aiutarci a realizzare il film. C’è da dire, tuttavia, che poi i film che hanno una loro determinazione, e cioè che vogliono essere fatti, alla fine si fanno. E questo dipende più da loro che da noi; per cui due personaggi apparentemente antitetici hanno trovato una collocazione in una storia strana ma particolare. Eppure il racconto è molto quotidiano, molto semplice: è una storia basata sui sentimenti, sul fatto di volersi bene tra due persone che appartengono a generazioni così distanti. Dovrebbe essere la norma, invece viene vista come un'eccezione! Ecco, questa eccezione delinea due personaggi che sono uguali e opposti allo stesso tempo.

L'organetto e la valigia di cartone da un lato, lo smartphone e i pattini da ghiaccio dall'altra: in un film come il tuo, in cui nonostante la molteplicità delle suggestioni e i messaggi veicolati c’è un uso parco delle parole, quanto sono importanti gli oggetti?

Orlando è un film ridotto quasi all'osso dal punto di vista dei dialoghi ma anche da quello della relazione tra i personaggi. Gli oggetti e gli ambienti sono determinanti e quindi il loro uso entra a far parte della narrazione in maniera preponderante, soprattutto se questi sono significanti. L'organetto e il cellulare sono oggetti significanti e dovrebbero essere inclusivi mentre a volte sono anche esclusivi. Orlando ad esempio sa suonare molto bene l’organetto, ma non possiede un cellulare, come Lisa che non sa suonare l’organetto è molto pratica nell’uso del cellulare. La compresenza di questi due oggetti completa l'incontro apparentemente impossibile tra due persone che vivono agli antipodi ma che in realtà hanno lo stesso bisogno, quello di comunicare tra loro e volersi bene. Il tema del film passa anche attraverso gli oggetti e i significati che assumono nel racconto. 

Dato il finale sostanzialmente aperto, possiamo aspettarci il seguito, magari tra qualche anno?

Assolutamente no. Credo che dovremmo ripristinare questa formula narrativa, quando è opportuno e quando è giusta, del finale aperto perché l'idea di dover chiudere a lucchetto ogni forma narrativa, quasi dando sempre comunque una risposta anche contro natura, secondo me non è una cosa strana per cui no, non farò mai il seguito di questo film. 

Il tuo film è un modo intelligente di affermare che anche gli italiani sono stati e sono migranti. Al di là del film, secondo te, riguardo a tale aspetto che livello di percezione c'è nell’opinione pubblica?

Il nostro è un paese fantastico: noi facciamo finta ormai da alcuni decenni che la migrazione sia un fenomeno che noi subiamo perché arrivano da noi persone da tutto il mondo. In realtà il dato più significativo, eclatante, persino sconvolgente, è il fatto che dall'Italia ogni anno se ne vanno circa 100.000 persone, soprattutto ragazzi e ragazze. L'Italia perde quindi 100.000 abitanti ogni anno, che oltretutto sono persone formate, quindi noi perdiamo un capitale umano straordinario. Eppure facciamo finta che non sia così! La percezione di questo fenomeno è pari a zero, anche perché le classi dirigenti, nella narrazione pubblica di questi temi, si occupano solo dei cosiddetti cervelli in fuga; una brutta metafora perché riduce l'essere umano ad una sua unica caratteristica: una sorta di unidimensionalità. È come usare termini tecnici che guardano alla condizione umana attraverso categorizzazioni, come nel caso dei profughi. Ecco, la parola profugo per certi versi disumanizza la percezione dell'importanza del movimento degli esseri umani nel mondo. Si tratta di un problema molto serio, non solo nel nostro paese: in tutto l’occidente noi non vogliamo affrontare davvero questi temi per cui li nascondiamo dietro terminologie o addirittura dietro rimozioni gigantesche. 

Ci spieghi il tuo omaggio a Ettore Scola, presente nei titoli di testa?

Negli ultimi dieci anni della vita di Ettore ho avuto la grande fortuna di frequentarlo moltissimo perché abbiamo lavorato insieme alla costruzione della scuola intitolata a Gian Maria Volonté. É stata un'occasione preziosa per la mia vita non solo artistica. Era coetaneo di mio padre, quindi una persona con la quale ho trovato una corrispondenza profonda, uno scambio verace dal punto di vista umano. Il motivo per cui gli ho dedicato il film appartiene al mondo degli affetti, non ha molto a che fare con la visione del cinema, anche se, ovviamente, con grande cautela sarebbe bello poter dire che noi siamo tutti un po' figli della generazione di Ettore Scola. Eppure oggi quasi ci vergogniamo a dirlo. Questa è insomma una dedica di affetto e allo stesso tempo – spero - una sorta di ricordo di ciò che noi siamo, e non da oggi. 

Puoi anticiparci qualcosa sul film cui stai lavorando?

Sto facendo un documentario che racconta la storia di un cineasta romano che si chiama Michele Avantario, il quale ha speso tutta la sua vita per realizzare un film su un grandissimo cantante nigeriano che ha cambiato la musica nel secondo Novecento: Fela Kuti. Il lavoro è ormai in via di definizione.

Il tuo libro "Il cinema, l'immortale" è un agile vivace disamina di nodi tematici che attraversano l'intera storia della settima arte. La tesi di fondo è che il cinema non sia affatto morto, ma si stia semplicemente evolvendo. Verso cosa?

Una caratteristica fondamentale del cinema fin dalle sue origini è il continuo superamento di se stesso. Nessuno è mai riuscito a prevedere esattamente cosa sarebbe diventato, quindi diciamo non mi butto nella mischia per cercare di capire cosa diventerà. Tuttavia, osservando il nostro presente possiamo semplicemente rilevare il fatto che il cinema si sia diffuso a tal punto da far parte del nostro quotidiano, persino a prescindere dalla nostra volontà. Il cinema é fuggito ben presto dalla sala cinematografica finendo su differenti dispositivi, come la televisione o persino la radio. Ebbene sì, ci sono trasmissioni radiofoniche fatte con l'audio dei film. Il cinema è poi diventato una specie di virus che si è diffuso su tutti i dispositivi che ora popolano la nostra vita. Dispositivi di ogni genere in grado di riprodurre audiovisivi. Il più potente di tutti è lo smartphone, che fa sì che noi possiamo portarci il film anche a letto. Ecco questa è la tendenza che osservo, quindi è inevitabile che questo non possa non avere delle ripercussioni sul cinema e sull’evoluzione del suo linguaggio. Ecco io credo che il contrario, ovvero un’immobilità dell’universo cinematografico, non sia nemmeno auspicabile. 

Secondo te, cosa il cinema tradizionale ha insegnato alla serialità e viceversa?

Ah, la serialità. Anche lì noi abbiamo un po' degli schemi su queste questioni: il cinema è nato seriale, sostanzialmente. All'inizio del Novecento c’era la serie delle comiche che tutti conosciamo. Quando ero bambino, per esempio, ricordo che in televisione passavano i film di Stanlio e Ollio. Ecco, quelle sono delle serie molto prodromiche, ma che già sviluppano delle caratteristiche sia della loro verticalità che orizzontalità, come amano dire gli esperti del settore. Cioè ci sono delle storie che vanno avanti nel tempo e altre che si esauriscono in ciascun episodio. Credo che il cinema non abbia limiti. Probabilmente, proprio la sala cinematografica ha imposto l'esistenza di formati di un certo tipo, mentre oggi (e non solo da oggi) il cinema, fuggendo appunto dalla sala, ha avuto la possibilità di sperimentarsi in tante forme, in tanti formati. Per cui credo che ci sia uno scambio continuo tra tutti questi formati e non mi scandalizzo. E soprattutto non mi stupisco se la serialità influenza il cosiddetto film, cioè il pezzo unico o viceversa: è un fatto del tutto naturale e persino scontato.

Rudolph Arnheim sosteneva che tanto più il cinema coincide con l'arte quanto più si allontana da una riproduzione anti-naturalistica della realtà. Dopo quasi cento anni, dunque, grazie alle tecnologie, quali simulcam o la CGI, il presente sembra dar ragione allo scrittore tedesco?

Nella dinamica che descrivevo prima, cioè quella del continuo superamento di sé stesso, il cinema è anche grazie alle tecnologie che si è sviluppato a tamburo battente, insieme al suo linguaggio. È proprio grazie a questo ci ha portato nella virtualità, un elemento di assoluta libertà espressiva. Ovviamente, come tutti gli aspetti che riguardano il cinema e l'industria cinematografica, questa libertà espressiva deve fare i conti con i costi e le forme distributive che questi grandi centri della produzione cinematografica mondiale utilizza. La virtualità, insomma, è allo stesso tempo libera e in catene, come peraltro tutte le altre tecnologie che abbiamo conosciuto nel passato. Il cinema è per certi versi progredito liberandosi dalle tecnologie precedenti, perché fino a qualche anno fa noi per trasportare un film nel mondo dovevamo metterlo su un aereo; una cosa che pesava venti chili doveva essere trasportata da un camion, montata su un proiettore e proiettato.  Oggi, invece, con un click da qualunque parte del mondo, può essere proiettato in qualunque altra parte del mondo. Questa liberazione tecnologica, ripeto, porta con sé dei grandi vantaggi e anche dei rischi che sono connaturati al mezzo.  Sia chiaro, però, che i rischi che emergono dal dibattito contemporaneo sul cinema non sono delle barriere insuperabili.

La dialettica ha tratti anche aspra tra alcuni cineasti e le piattaforme è uno dei temi del libro. Ci vuoi motivare sinteticamente la tua posizione in proposito?

Come dicevo prima le nuove tecnologie sono allo stesso tempo libere e in catene. Le piattaforme sono degli strumenti straordinari che però si trovano nelle mani di aziende che tendono al profitto come è d'altro canto già accaduto nella storia del cinema: le grandi produzioni internazionali hanno in qualche modo da sempre monopolizzato produzione e distribuzione cinematografica. Per certi versi, gli autori si sono formati molto spesso contro l'industria cinematografica e i suoi tentativi di standardizzazione. Io vedo in atto la stessa dialettica con l’avvento delle piattaforme. Con una differenza, però: che queste sono per certi versi più potenti e anche impermeabili agli istinti creativi individuali, per cui noi non sappiamo ancora bene dove questa dialettica porterà. Senza dubbio è una dialettica sana, ecco. Non è sbagliato insomma discutere tutti i giorni di cosa si tratta, cosa noi dobbiamo fare, con quale pubblico dobbiamo parlare e soprattutto con quale “margine di libertà” siamo tenuti a esprimerci. 

Per quanto riguarda le nuove strategie per ridare impulso alle sale cinematografiche, c'è qualche iniziativa interessante che ti senti di segnalare? Se poi fossi tu a gestire una sala, cosa proporresti all'atto pratico? 

Come accade spesso nella storia dell'evoluzione industriale e tecnologica, può essere che alcune cose apparentemente superate possano invece diventare un punto di forza nel futuro. Ad esempio, la monosala cinematografica gestita da un esercente che sia un amante del cinema e conosca il proprio pubblico, secondo me può essere in qualche modo il futuro del cinema. Ma bisogna crederci e far sì che il sistema distributivo attuale, calibrato invece su altri criteri, accetti l'idea di tornare per certi versi indietro e dare respiro e forza agli esercenti che sono in grado di fare una proposta culturale ai propri spettatori. Cioè a coloro che siano in grado di costruire un pubblico. Questo, secondo me, è un elemento di grande rilevanza, perché con una diffusione capillare di sale cinematografiche anche in territori dove queste ora non sono (o non sono più) presenti si potrebbe trovare la linfa per una nuova vita del cinema. Ovviamente nessuno può pensare che questo passaggio sia indolore, ma secondo me va comunque fatto.  

Nel capitolo intitolato "sogno, percezione, linguaggio, pensiero" focalizzi la tua attenzione sulle nuove modalità di fruizione del prodotto cinematografico. Ecco, parlaci dell'esperienza più interessante di Daniele Vicari come spettatore.

Devo dire che negli ultimi anni ho provato uno strano e perverso piacere, quello di andare al cinema nelle sale semivuote durante la pandemia. Non ho mai smesso di andare al cinema, ovviamente non appena le sale sono state riaperte, perché l'esperienza della solitudine (che comunque proviamo tutti i giorni a casa) in un ambiente così ampio, con un'immagine che ci sovrasta, in qualche modo mi ha sorpreso. Ecco, senza gli spettatori intorno (qui riconosco di essere un po' in controtendenza) questa forma di solitudine, di solipsismo della visione, non mi sembra un fatto negativo. Ovviamente è un problema molto grosso dal punto di vista economico per le sale e quindi spero che venga superato. Però è stata un'esperienza percettiva estremamente interessante. 

Altro tema del libro: l'insegnamento del linguaggio degli audiovisivi nelle scuole. Ci dici come dovrebbe procedere? 

Penso che non sia più rinviabile una sorta non di riforma ma di rivoluzione nelle nostre scuole, perché non ha più alcun senso che il linguaggio più diffuso e più praticato ogni giorno da tutte le persone che vivono nella nostra società, cioè il linguaggio audiovisivo, unitamente a quello dei new media, non venga studiato a scuola in tutte le sue forme. Questa ormai è una questione urgente che pertiene quelli che secondo me possiamo definire diritti civili e di cittadinanza. Se la nostra scuola continua a essere impermeabile a questa urgenza, corre il rischio di essere scavalcata dagli avvenimenti, per cui potrebbe anche in qualche modo perdere la battaglia. 

Per quali ragioni oggi il cinema documentario è una valida alternativa alla crisi di quello di finzione?

Il cinema documentario ha oggi due caratteristiche determinanti che lo rendono in questo momento nettamente superiore a quello di finzione. La prima caratteristica è la totale libertà espressiva possibile nell'utilizzo dei linguaggi, quindi la sua estrema modernità, che passa attraverso il riuso di materiali di archivio fino alla riproduzione e alla cosiddetta presa diretta dei fatti che accadono sotto i nostri occhi. Si può inoltre giungere a una mescolanza di generi e di forme narrative in un certo senso vietate dall'industria cinematografica e nel cinema di finzione in particolare. Tutto questo fa sì che il cinema documentario si sia sviluppato dal punto di vista artistico ed estetico molto di più del cinema di finizione (se si escludono alcuni territori di grande sperimentazione, come quelli della Marvel, dove si utilizzano anche tecnologie irraggiungibili per qualunque altro essere umano sul pianeta). Poi c'è il secondo aspetto, che è legato al primo: la grande libertà che è determinata anche dal fatto che, solitamente, il documentario non necessita di capitali inestimabili. Gode infatti di un'apertura totale a tutti gli argomenti, a tutti i significati e a tutte le persone. Per esempio, nel cinema documentario in Italia la percentuale di donne o di persone straniere di seconda generazione che fanno film è nettamente superiore rispetto a quella del cinema di finzione. E questi sono dati che secondo me dicono tutto. 

La figura del prosumer, di cui parli nel tuo libro, sembra riecheggiare il principio teorizzato a suo tempo da Džiga Vertov, secondo cui lo spettatore deve essere non solo fruitore ma anche produttore dell'audiovisivo. Allora si parlava di "cinetizzare". E oggi?

I dispositivi di ripresa che ormai possediamo tutti in gran numero hanno in qualche modo dato ragione a questi grandi utopisti dell'inizio del Novecento, i quali avevano visto nella diffusione del linguaggio del cinema una grande possibilità di sviluppo della società. É chiaro che questo sviluppo ha a che fare anche con lo sviluppo dell'economia e quindi con la necessità, da parte di chi costruisce e commercializza questi strumenti, di fare cassa. Ma questa è la storia diciamo del mondo contemporaneo, sia dei sistemi capitalistici che di quelli cosiddetti socialisti, per cui le tecnologie messe a disposizione della popolazione hanno certo un costo sociale. Tuttavia, possiamo dire che queste persone, come Džiga Vertov all'inizio del Novecento, hanno la lungimiranza di intuire il possibile sviluppo del linguaggio audiovisivo. Le potenzialità della sua diffusione sono oggi sostanzialmente sconosciute. Noi possiamo semplicemente dirci che non siamo all'altezza dei nostri antenati: bisogna recuperare tanto terreno perduto, però gli strumenti per farlo ci sono e vanno messi in campo.





Daniele Vicari: fare e scrivere di cinema