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Conversazioni sul cinema - Incontro con Federico Gironi

Apriamo un dialogo sulla critica cinematografica con una lunga chiacchierata con Federico Gironi, penna brillante e autore di numerosi saggi. Un confronto su alcuni temi attuali e per noi importanti: dall'uso dei social network, alle derive del mestiere, la presenza (assenza) del cinema sui media di massa fino al Torino Film Festival

È sempre difficile partire, trovare lo spunto per iniziare un discorso, anche se più o meno so dove voglio andare a parare. Quindi direi di iniziare da un complimento che magari ti può imbarazzare, così per rendermi subito simpatico: seguo quello che fai da un sacco di anni e mi piace molto il tuo stile di analisi dei film. Quando vedo un film sei il primo che vado a leggere, per sapere cosa ne pensi.
Mi ricordo che ti guardavo su Coming Soon Television, in particolare un programma che vedeva te e Mauro Donzelli, uno di fronte all'altro a parlare a ruota libera di un film. 
Non so bene di che anni parliamo, ma mi pare fosse un ottimo modo per raccontare i film, con due punti di vista piuttosto diversi (io, con tutto il rispetto per Donzelli, "tifavo" sempre per te) e che in poco tempo offriva una riflessione piuttosto approfondita.
La memoria mi assiste? Come era quel programma?


Per prima cosa, grazie per i complimenti, che un po' imbarazzano ma un po' fanno anche un massaggino all'ego. Il programma di Coming Soon di cui parli si chiamava Review: non era un format mio, né tutto sommato troppo originale. Alberto Farina, primo capo-redattore della tv di allora, lo modellò infatti sullo show americano di Siskel & Ebert; e lo mise in palinsesto, conducendolo le prime (credo) due insieme a Donzelli. Quando poi sono arrivato io, nel 2001, Alberto aveva già lasciato il canale. Ma con Mauro abbiamo ricominciato a fare il programma abbastanza presto: credo già nel 2002, o nel 2003, non ricordo.
Review è stato il primo vero spazio di critica che ho avuto a mia disposizione, il primo esercizio (libero, e un po' scellerato) della professione. Sulla carta cominciai a scrivere, su Duellanti, solo qualche tempo dopo, e ancora dopo venne Cineforum. E ai tempi il sito di Coming Soon era solo di supporto al canale, senza contenuti redazionali né tantomeno recensioni.
Lo ricordo come un'esperienza molto divertente e stimolante: una bella palestra. Era, in effetti, un ottimo modo di parlare di cinema in tv, e lo scontro "frontale" tra me e donzelli permetteva di fare un po' di spettacolo facendo leva sulle nostre opinioni spesso divergenti. E quasi sempre divergenti per davvero, non certo per motivi scenici. Magari oggi troverei esagerate certe prese di posizione, ma allora andava bene così.

Tu che hai vissuto in piccolo l'esperienza televisiva ti sei fatto un'idea del perché di cinema in televisione si parla così poco?
Gli spazi a esso dedicato sono risicati, e quando ci sono mi pare ci si limiti a fare degli spot. Non si parla di cosa c'è nel film, ma del film in sé, dell'uscita nelle sale. Che poi il film sia buono o meno sembra non importare.

Prima di tutto credo che di cinema in tv si parli poco perché in tv si parla poco di cultura in generale. Poi il cinema "parlato", specie dal punto di vista critico, fa poco ascolto: e quindi ecco tutto il rachitico fiorire di pochissime trasmissioni che si limitano a fare esattamente quello che hai detto tu: la prosecuzione di una campagna di marketing con altri mezzi. Nell'era del turbo-capitalismo e dei social network, della "recensione" che ognuno posta sui suoi spazi social, non c'è più spazio per la riflessione critica, figuriamoci per la riflessione professionale o comunque di un certo tipo: viene considerata inutile, pretestuosa. Una pippa mentale. E proprio per questo, oggi la critica, e non solo di cinema, serve più che mai.

Francamente sui giornali mi pare che la situazione sia simile. Se non si tratta di una rivista dedicata, allora la critica cinematografica svanisce (o quasi). Faccio un esempio che magari poi mi impedirà di scrivere di cinema in futuro (scherzo): tutti hanno, giustamente, grande considerazione di Paolo Mereghetti che scrive regolarmente sul Corriere. Ma quando leggi i suoi articoli ti rendi conto che il più delle volte non sta facendo una critica o un'analisi. Racconta il film, la trama e ne dà un giudizio del tipo bello/brutto. Questo non per dar contro a Mereghetti, ma per dire: non c'è spazio per la critica? Al pubblico non interessa forse, e nemmeno all'editore...
Ma non è solo questo secondo me. Ti faccio un altro esempio che mi sta a cuore. Internazionale è un settimanale di cui si può dir poco di male, sempre interessante e preciso. Ma anche lì la sezione cinema è decisamente povera, stringata e riporta brevissime recensioni. Ovvio non è un settimanale che parla di cinema, ma il salto di profondità fra il resto e quella sezione è evidente (per dire la parte sui libri è più consistente, e anche forse quella dei dischi).
Tutto questo per chiederti, è una mia visione pessimistica della cosa o anche tu che fai questo mestiere hai sensazioni simili?


No, non credo affatto tu sia pessimista. Penso, anzi, tu abbia fotografato molto bene la situazione, che dal mio punto di vista è molto triste. Vale ovviamente tutto quello detto prima riguardo l'ambito televisivo. La crisi dei giornali è ancora più forte di quella della tv, e quindi via le recensioni e spazio ai paginoni sulle vacanze di Clooney, le tette di Scarlett Johansson, la separazione tra Pitt e Jolie. Oppure alle interviste marchetta a questo o quel regista italiano col film in uscita in 600 copie. Che poi non è che la cronaca, il colore, il gossip non ci debbano essere, per carità, ma non a totale discapito della critica.
Se da un lato ci sono gli editori o i direttori che limitano gli spazi (e magari anche i contenuti, non lo so, di certo però sul Corriere non puoi aspettarti lo stesso stile di una rivista specializzata), dall'altra c'è un pubblico che è stato progressivamente disabituato alla lettura di contenuti di un certo tipo. È un circolo vizioso che spinge al livellamento verso il basso: l'editore abbassa il tiro per vendere di più, il pubblico si abitua a quello, l'editore deve scendere ancora (perché in giro c'è sempre qualcuno che va più in basso di te) e così via. E io sono convinto che questo circolo si potrebbe invertire, andando pian piano verso l'alto invece che verso il basso: abituando il pubblico alla qualità.
Su Internazionale come testata non mi esprimo, anche perché non sono un assiduo lettore: certo è che mi pare lì di cinema scrivano gente come Raimo (che di certo non è un critico cinematografico) e Bordone (che anche lui viene da tutt'altro).
Se poi guardi gli inserti culturali, per fare un esempio, La Lettura o il nuovo Robinson, anche lì il ruolo del cinema è marginale, rispetto a letteratura, musica, teatro o altre arti. La sensazione è che il cinema sia troppo pop per la cultura alta, e troppo alto per la cultura bassa, se mi passi una semplificazione un po' fuori dal tempo, anche perché continuare a dividere in alto/basso è sempre più difficile e inutile. Che poi è un po' come mi sento io: troppo pop per la critica engagé, troppo intellettuale per la critica pensata per il grande pubblico.
Comunque, in sintesi: sì, la situazione è triste. Per fortuna ci sono spiragli di speranza, come il fatto che Mario Calabresi abbia voluto un "giovane" come Emiliano Morreale per fare la critica dai festival su Repubblica.
Una parte di colpa, poi, ce l'ha anche la critica, va detto, che oggi forse, per reazione, si arrocca su posizioni accademiche che ne snaturano un po' la funzione di dialogo (anche pedagogico) col lettore. Almeno di una parte di critica.

Siamo incredibilmente affini nel sentire queste cose; la cosa mi fa piacere, ma un po' mi spaventa. Perché io sono fuori dal giro, non sono un critico di lavoro (cioè non mi danno soldi in cambio di quel che scrivo) e speravo di avere una visione lievemente distorta. Peccato.
E quindi arriviamo al tuo mestiere. Cosa significa per te fare quello che fai?

Se vuoi ti do l'imbeccata rubando una cosa che hai scritto tempo fa su facebook, durante un panel sulla critica alla Festa del Cinema di Roma: 
"Però, tra alti e bassi, non so se dirmi più sconcertato, incazzato o atterrito dall'aver ascoltato un intervento (italiano) nel quale si dicevano cose del tipo oramai fare il critico non è un mestiere, fare il critico è più una condizione esistenziale."
Parlamene.


Cosa significa per me fare quello che faccio? Bella domanda. Significa molto, credo. Non sono un medico senza frontiere né un cardiochirurgo, ma prendo la critica abbastanza sul serio (anche se questo non esclude la leggerezza).
Credo di pensare alla critica come a qualcosa che ha un ruolo all'incrocio tra la ricerca intellettuale, la maieutica, la pedagogia e perfino la narrativa. Solo col tempo ho capito che mi piace la critica perché mi piace raccontare quello che vedo, nel senso di parlare a qualcuno di come un film, un testo, ha agito su di me, sulla mia visione delle cose, e su come agisce e si relaziona con la realtà che ci circonda. L'emozione è importante, ma la soggettività non basta, altrimenti si finisce col piegare tutto al proprio sguardo, mentre tra te e il film ci deve essere un incontro dialettico e - nel migliore dei casi - magari anche provocatorio. Quindi quando scrivo cerco di fornire al lettore un punto di vista che sia di aiuto a comprendere il testo nella sua relazione con il cinema, col mondo, e un po' anche con me. Di fornirgli, con le mie competenze, delle chiavi di lettura, delle porticine attraverso le quali entrare per scoprire cose che magari da soli non avrebbero scoperto. Non so se questo discorso ha senso, per te, se mi sono spiegato.
Fatto sta che per fare questo, o per fare critica anche da un altro punto di partenza, ci vogliono delle competenze che troppi, oggi, pensano di potersi inventare. Per questo mi fa incazzare chi pensa di potersi improvvisare solo perché oggi, sui social, crearsi un pubblico è facilissimo, solo perché ti piace andare al cinema, hai visto un po' di film, e pensi che il tuo giudizio valga quello di chi ha studiato per anni, ha lavorato per anni, si è messo costantemente in gioco e è arrivato dove è arrivato facendo un mestiere e magari prendendosi anche delle belle batoste, e non facendo il libero pensatore della rete. Sono fermamente contrario alla legittimazione dal basso, credo ancora nelle necessità di una élite: nella critica come nella politica.

Io ho una formazione umanistica (ho studiato Storia dell'Arte a Pisa e, laureandomi con una tesi sul documentario d'arte, ho avuto per anni l'influsso spirituale di Carlo Ludovico Ragghianti) ma poi ho fatto altro nella vita, non ho trasformato la preparazione in lavoro. Non ci ho nemmeno provato, però ho sempre pensato che i miei tempi per fare critica fossero molto dilatati.
Rispetto a quello che dici tu, che ben capisco, ho da chiederti un passaggio ulteriore. Il rapporto dialettico, di scontro con il film mi sta bene. Ma io, sarà che non son così arguto come tanti altri, un film devo guardarmelo almeno due volte (ma anche tre o quattro) per poterne parlare in maniera "critica". Nella prima visione per me ci son troppe componenti che non possono farmi esprimere un giudizio sensato. C'è innanzitutto tutta la parte emozionale che non mi può aiutare a parlare di quel film. Non vuol dire che la parte emozionale non abbia un peso, ma è sicuramente quella che definirei la schiuma dell'onda critica. Il film va visto, rivisto, smontato pure. Solo così anche capito. Se vado a vedere lo stesso film il giorno che mi è morto il gatto o il giorno che m'ha baciato per la prima volta "la ragazza dai capelli rossi" vedrò  due film diversi. Per questo dovrei vederlo almeno due volte (sia con il gatto morto sia con la ragazza dai capelli rossi). Il film non è solo esperienziale.

Tutta questa operazione richiede tempo. Tanto, troppo. Altrimenti il rischio è quello del dire "mi è piaciuto/non mi è piaciuto" che è poi quello che scrive il 90% di quelli che scrivono in maniera amatoriale di cinema. Quell'atteggiamento è puramente sentimentale e soggettivo e a me non interessa per nulla.
E dall'altra parte non deve essere una sega mentale, ma un processo di analisi che guarda al materiale visivo come primo oggetto di studio. Per cui è importante conoscere le tecniche del cinema.
Mi sto perdendo, ma ci tenevo a darti il mio parere confuso. Questo per parlare del metodo di far critica.

Tu hai mai pensato a questa cosa della prima visione? O essendo un professionista riesci ad astrarre tutto ed essere perfettamente lucido in un colpo solo? Una sedia scomoda, un vicino di poltrona che parla, una sala troppo calda...


La questione che sollevi è chiara e importante. Mettiamola così: ho mai preso delle cantonate? Certamente. Magari per stanchezza, magari perché influenzato da questioni esterne, magari per distrazione. Non è effettivamente facile, a volte, uscire da un film, magari a un festival, dove i ritmi delle visioni e del lavoro sono altissimi, e avere la lucidità ideale per scrivere un pezzo. Però cosa posso dirti: è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo. In questo caso c'entra anche la consapevolezza che si deve avere (anche magari in quanto lettore) del tipo di lavoro che si sta facendo. Da critico, devo sapere che scrivere una recensione volante a un festival o scrivere un pezzo lungo su un saggio sono due cose necessariamente e irrimediabilmente diverse. E devo fare i conti con la finitezza delle mie capacità quando magari mi tocca scrivere di un film importante, denso e tosto in tempi brevi. Capisco che la cosa ideale sarebbero più visioni, ma se il mio lavoro è per media che richiedono una certa velocità di risposta, c'è poco da fare i puristi. Certo, il tempo per una riflessione adeguata non te lo deve togliere nessuno, non dovrei scrivere entro 30 minuti dall'uscita dalla sala, ma devo pure venire a patti con la realtà delle cose, con tutti i limiti che questa comporta ai miei ragionamenti. E dentro quel recinto spaziale e temporale, devo cercare sempre di dare il meglio di me. Poi non vorrei ora fare discorsi troppo ghezziani, ma in qualche modo, pur nel massimo rispetto del materiale che osservi, che come giustamente dici tu merita il massimo sforzo possibile di oggettività, l'ingresso di una parte di soggettività, di realtà e di mondo nel rapporto tra me e il film mi sembra che a volte possa aggiungere un calore emotivo ma anche intellettuale che uno sguardo troppo chirurgico, troppo calcolato, troppo freddo, potrebbe limitare. Quando ho visto INLAND EMPIRE a Venezia dopo una notte quasi insonne, e mi ha fatto l'effetto che mi ha fatto, è stato un abbaglio dovuto alle mie condizioni soggettive? O ha incastonato il film dentro il fluire magmatico di una realtà che non possiamo avere la presunzione di tenere fuori dalla porta del cinema, impreziosendolo?
Detto questo, ripeto: se scrivo un pezzo per Coming Soon, per Cineforum o per un saggio, i gradi e i modi del mio ragionare critico devono essere diversi: senza che questo implichi, però, una scala valoriale qualitativa. Non so se mi sono spiegato.
D'altronde, se parliamo di arte, che un quadro o un'installazione vivano in un certo contesto, che le sale che li ospitano siano così e non colì conta, no?

Parlavi prima del "giovane" Emiliano Morreale (cosa ne dici di citarlo ancora qualche volta come giovane virgolettato? Credo gli possa far piacere...), proprio il conservatore diceva in un'intervista che chi scrive di cinema deve studiarlo il cinema, e che gli appassionati spesso non conoscono la storia del cinema (ed è un po' il tuo pensiero di sopra). E soprattutto che "per troppo tempo si è badato nella critica cinematografica italiana al contenuto, al tema del film. Bisognerebbe invece guardare al contenuto in un senso più ampio. Il contenuto va inteso come significato, senso del film, che poi è sempre un senso estetico. Il di più che può fare un critico è far notare come il contenuto del film passi attraverso la sua forma che è la vera stoffa, la materia del film. Nel cinema la forma, la messa in scena, è qualcosa di concreto e solo astraendola ne troviamo il contenuto."*
Da persona intelligente quale è, credo dica molto con poche parole, tu cosa ne pensi?

* intervista su cinemecum.it


Prima di tutto fammi dire che Emiliano è uno dei migliori in circolazione. In pochi hanno il suo bagaglio teorico, e in pochi sono in grado di fare critica senza fartelo pesare, quel bagaglio che pure è sempre lì sensibile, ma flirtando invece costantemente con la leggerezza e la comprensibilità del testo per chiunque. Anche a proposito di quello che dici tu, mi permetto di citare una nostra conversazione recente, nella quale il punto, all'incirca, era "troppo spesso si parla bene di un film perché ci permette di dire tante belle cose intelligenti: mentre a volte ci sono bellissimi film sui quali tutta questa riflessione intelligente e intellettuale non viene, perché non è necessaria, perché quella bellezza è tutta lì nella superficie." E viceversa, ovviamente. Ecco, credo che le due citazioni si completino. Credo che quando parla di troppa attenzione al contenuto, e di poca attenzione alla forma, Emiliano stia parlando del nostro riversare senso nei film (un senso spesso nostro) astraendo dal mondo in cui un contenuto si veicola.  A volte, insomma, scatta la pippa mentale vera. Che magari è brillantissima e acuta, ma che non è più critica, non sempre almeno, che è accademia, che è parlarsi tra addetti ai lavori: ancora una volta.

Da qui poi arriverei alla questione centrale. Cosa è oggi fare critica cinematografica?
Su Cineforum tempo fa è uscito un bell'articolo di Roberto Manassero (che ringrazio per avermelo fatto ritrovare) intitolato Pigre Visioni. Mi suonava come un sasso nello stagno quello scritto, di quelli che poi creano le onde circolari e aprono un dibattito acceso.
Ho paura che non sia andata esattamente così. 
Forse c'è una pigrizia generale in tal senso, non so.
Ma diciamo che nel suo testo ci sono moltissimi spunti di cui parlare... "[...]Nel tempo dello scambio permanente, anche la critica, che non è un dialogo, è diventata suo malgrado una questione di botta e risposta. O di corsa a chi arriva prima, a chi mette la bandierina, [...]. La critica, oggi, va soprattutto in cerca di una cosa che internet rende immediata e visibile: la reazione."

Credo di ricordare che quell'articolo nacque da una chiacchiera fatta a cena. Roberto, oltre a essere anche lui uno dei più bravi in circolazione, è come me uno che s'interroga molto sul senso di quello che facciamo. Sul senso e sul modo. E che come me pensa che la critica sia ancora una pratica nobile e importante.
Al di là di chi critico si improvvisa, della gente di cui parlavamo prima, anche tra quelli seri e bravi a volte ci sono delle derive che non sono molto costruttive. Ti ho parlato prima di una critica troppo vicina all'accademia, potrei parlarti di critici che diventano troppo autoreferenziali e che piegano tutto ciò che vedono ai loro modelli di pensiero, altri che sono troppo vittime delle ansie di affermazione e riscontro che vengono dai social. Per carità, nessuna accusa, io ho sicuramente i miei difetti, ma sono alcuni esempi di derive che la critica può prendere.
Mi dispiace battere così tanto su questo tasto, ma i social sono stati davvero un problema. Non solo perché hanno fatto illudere tanti di poter essere critici senza averne le basi, ma anche perché oramai in rete si ragiona per bande, per estremismi, per capolavoro o cagata, per giusto e sbagliato. Esistono, a volte, giusto e sbagliato, l'oggettività di certe cose non si può o non si deve negare, ma a volte ho la sensazione che l'ansia legata alla presenza, all'arrivare per primo a mettere la bandierina su questo o quell'altro film, al gusto della provocazione per farsi notare, penalizzi in maniera drammatica il nostro lavoro.
Dalla critica che nasce dalla riflessione, si è passati alla critica figlia del riflesso, dell'istinto.
Che poi quel pezzo non abbia avuto la risonanza che doveva avere è un fatto. Oggi il critico già lotta per avere quel poco spazio che ha, forse non ha voglia di mettersi in discussione in quel modo: ma sbaglia, perché solo riflettendo su come si fa oggi questo lavoro, e magari su come si potrebbe o dovrebbe fare, si può trovare la strada per una specie di riscossa e di rilancio.

Sì, Manassero credo sia uno molto interessante da seguire, e mi spiace molto che quel pezzo non abbia avuto risonanza. Visto che tu dici che i critici lottano per il poco spazio che hanno, voglio dargli io (per quanto piccolo sia il mio megafono) voce, spero di poterlo intervistare presto per Ondacinema.
Il dubbio però un po' mi viene da questa lunga chiacchierata... se il mondo della cultura è in crisi costante, la critica è bella che morta. Almeno in una visione massimalista, dove tutto deve andare bene per tutti.
Invece per me è viva ed è vita, l'approccio critico è l'unico con cui so affrontare l'esistente. Ma questa cosa che senso ha, se non a livello individuale?
E quando non è un fatto privato è riservato a una stretta schiera di addetti ai lavori... e pure così, come nel caso del pezzo di Manassero, manco lì fa breccia.
Caro Gironi, qui è un circolo vizioso mi sa. E c'è un bel po' da lavorare. 
Io, come già dicevo, ho il faro di Ragghianti che mi guida. E allora penso che sì, il fare critica porti a migliorare il mondo. I suoi Critofilm o SeleArte servivano a quello... Forse fare bene il critico può portare a nuovi spazi di discussione e di confronto. Il binomio Olivetti - Ragghianti è un fatto storico che potrebbe ripetersi. Magari fra un migliaio di anni.

Certo, da lavorare c'è moltissimo. Partendo dal fatto privato, come etica esistenziale e personale dei singoli, e sperando che piano piano il dibattito (quel dibattito che abbiamo detto prima azzerato e reso scontro tra tifosi invece che sostenuto dai social e dalla forma mentale che ci stanno inculcando) torni a trovare il suo spazio.

Tu giri sicuramente l'Europa e il mondo per i festival, da Venezia a Cannes a Berlino per dire i più famosi... quindi avrai pure uno sguardo su come si muove la critica in altri contesti. Senza fare gli esterofili, altrove ha un peso diverso questo lavoro?

Non sono sicuro di saper rispondere a questa domanda. Posso dire solo una cosa: molti grandi quotidiani esteri (cito ad esempio il Guardian) spesso hanno il richiamo delle recensioni in prima pagina. In Italia non mi risulta questo accada. E, ai festival, vedo che i critici (anche di giornali cartacei o web importanti) sono spesso molto più giovani dei nostri.

Io seguo molto da vicino il Torino Film Festival, e devo dire che non vedo questo scambio vivace di opinioni. Forse son solo io fuori dal giro giusto, ma quello che mi piacerebbe molto è vedere la sala del cinema Classico (la sala destinata alla stampa durante il TFF n.d.a.) come una arena di discussioni e irose diatribe... invece raramente si parla, siamo tutti più concentrati sugli smartphone. Forse in contesti più piccoli succede qualcosa di più, non so.
Per esempio mi sembra che quando il TFF era più piccino, con gli incontri in piazza CLN ci fosse più scambio, non credi che le due cose possano essere inversamente proporzionali?
Più ci allarghiamo e meno c'è spazio per lo scambio di opinioni? A prescindere dal TFF, ovviamente.

Te lo dicevo prima: non è questione di dimensioni, secondo me. È questione che viviamo anni in cui non esiste il dibattito, lo scambio di idee o perfino lo scontro costruttivo. Esiste solo "ho ragione io e tu sei un coglione perché non capisci che quello che abbiamo visto è un capolavoro / una merda." Viviamo tutti nella bolla delle nostre convinzioni egotiche, egoiste e fondate sul nulla, e il vaffanculo che ci lanciamo non serve a qualcosa di costruttivo (che avveniva in passato, dove gli scontri erano generatori di pensiero) ma solo a farci arroccare sempre di più nelle nostre convinzioni. Scriviamo le nostre cose, i nostri post, e chi se ne frega degli altri. Sarà pessimista, ma la vedo così. Sarà che io, invece, mi metto in dubbio fin troppo.

A proposito di TFF, tu sei fra i selezionatori. Reputo il festival torinese la punta di diamante in Italia, perché conserva uno spirito provinciale pur avendo in realtà un programma da prima della classe. C'è un conflitto con il tuo lavoro di critico quello di selezionatore? Oppure è una naturale prosecuzione?
In qualunque caso, ci tengo in questa sede a fare i complimenti a te e a tutti quelli che lavorano per il festival della mia città d'adozione. Il vostro lavoro è eccezionale e merita grandi elogi. Vi ringrazio per le visioni di cose sublimi, e anche per quel paio di robe inguardabili che negli anni mi hanno tormentato gli occhi.


Vabbè, dirti grazie non esprime la minima parte del senso di gratitudine e soddisfazione che si prova nel sentirsi dire queste cose. Perché, lo dico chiaramente, fare il selezionatore è fare il critico. Si tratta dello stesso identico lavoro. Proporre la tua lettura di un film a un pubblico con una recensione è proporre il tuo pensiero sul cinema e sul mondo, e fargli vedere un film che hai visto a un festival è esattamente la stessa cosa. Una recensione serve a parlare con chi ti legge (e questa cosa del dialogo col lettore per me è fondamentale, se non vuol dire livellamento verso il basso, per questo devi farti capire e non arroccarti nelle speculazioni che ti fanno fare i complimenti dai colleghi e basta), a spiegargli qualcosa di come è e di come la pensi, a fargli vedere le cose coi tuoi occhi e dargli magari la chiave per aprire delle porticine nel testo che da solo non trovava immediatamente, così che poi possano essere i suoi, di occhi, a guardare le cose. A un festival fai la stessa cosa: peschi nel mare del cinema esistente un qualcosa che ti conquista, ti rispecchia, che credi possa dire qualcosa del mondo in cui viviamo o del cinema in toto, e lo proponi a qualcuno, sperando che condivida la tua visione, o che trovi in quello che gli fai vedere le porte per letture che magari da solo non avrebbe fatto, anche se magari un film gli fa cacare. Fare un festival è fare critica, senza dubbio alcuno.

Andrei avanti per giornate intere, mi piacerebbe pure parlare di qualcosa di specifico, magari di un film o di una scena. Vorrei chiederti del tuo film preferito, di pettegolezzi da quattro soldi e tanto altro. Ma poi mi viene da chiedermi... qualcuno è arrivato davvero fino a questo punto a leggere l'intervista?
Quindi forse chiuderei così.
Tu che ne dici? Aggiungiamo ancora qualcosa?

Ah non so. Io sto qui. Se vuoi aggiungere, aggiungi. La nostra sarà un'intervista senza fine, alla Fuori orario.





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