La rassegna meneghina della Croisette 2008. Una versione ridotta del festival, senza eventi mondani e senza alcune opere che senz'altro non avrebbero sfigurato (come, in questo caso, i film di Jia Zhang-Ke e di Clint Eastwood). Una disamina dei film (ancora inediti in Italia) che hanno caratterizzato l'edizione che ha riportato la Palma d'oro in Francia dopo 21 anni
La rassegna meneghina della Croisette 2008
Ci sono i cinefili più fortunati o volenterosi, che si recano in loco per assistere all'evento, ci sono quelli che, non abitando in una metropoli, attendono che i film escano in sala e si mangiano le mani per quelli che non usciranno mai. E poi ci siamo noi, che viviamo a Milano o a Roma, che possiamo assistere a una versione ridotta del festival, senza eventi mondani e senza alcune opere che senz'altro non avrebbero sfigurato (come, in questo caso, i film di Jia Zhang-Ke e di Clint Eastwood).
Quella che segue è una serie di recensioni, più o meno brevi, dei film (ancora inediti in Italia) che hanno caratterizzato l'edizione che ha riportato la Palma d'oro in Francia dopo 21 anni e che ha sancito l'ennesima (presunta?) rinascita del cinema italiano. Due di essi provengono non da Cannes, bensì dal più provinciale Bergamo Film Meeting.
I giudizi si basano su un'unica visione delle opere, per cui sono da intendersi, ovviamente, come mere impressioni, da sottoporre a successiva revisione.
SELEZIONE UFFICIALE
Entres les murs, di Laurent Cantet - Francia
Un anno scolastico in una difficile classe parigina, microcosmo e specchio di enormi problemi sociali. La telecamera è sempre "dentro le mura", si concede solo qualche "ricreazione" in cortile (anch'esso inquadrato dall'interno dell'edificio), ma la sensazione non è quella di prigionia per i giovani protagonisti (prevalentemente immigrati), bensì di protezione. Non vediamo nulla delle loro vicende esterne, ma ne veniamo a conoscenza attraverso i comportamenti e alcune toccanti storie. Il corpo insegnante, alle prese con grosse difficoltà di comunicazione, appare credibile e umano, al di là di qualche piccola tendenza alla burocratizzazione del suo mestiere. Cantet aleggia con leggerezza sublime, non smussa nulla se non i caratteri dei personaggi, sempre sfumati (tranne nel caso di un professore tipicamente autoritario) e oltre due ore di simil-documentario volano come se niente fosse. Abbandoniamo il tifo nazionalista: la Palma d'oro è meritata. Sul registro: 8
Le silence del Lorna, di Jean Pierre e Luc Dardenne - Belgio, Francia, Italia
La consueta vicenda tragica dei film dei Dardenne, cantori dei "miserabili" del nostro tempo. La telecamera è però meno addosso agli attori, quasi a voler dar loro un po' di respiro. Talvolta ce li mostra sfocati; non adegua la messa a fuoco ai loro movimenti, pur di mantenere una certa distanza. Come ne "L'enfant" e come al solito, a muovere tutto è il denaro, oggetto della prima inquadratura del film. Questa volta però i sentimenti sfuggono al controllo dei protagonisti, almeno finché qualche ellissi bruciante non riporta lo spettatore nella drammaticità di una realtà, da cui la protagonista cerca di uscire costruendosi nella mente un mondo fittizio, data l'impossibilità di farcela attraverso l'emancipazione sociale. Come sempre debitore di Bresson ("l'Argent" e "Mouchette"), "Le silence de Lorna" sembra tener conto anche del film di Mungiu trionfatore a Cannes 2007. Contraddistinto da qualche (inedito) calo di tensione, non ha la perfezione dei precedenti lavori dei registi belgi. Sul registro: 7
Uc maymun (Le tre scimmie), di Nuri Bilge Ceylan - Turchia 2008
Storie di colpe non espiate, di tradimenti e di famiglie in crisi nella Turchia contemporanea. Dopo cinque film realizzati, la carriera di Ceylan assomiglia a una parabola: un promettente quanto acerbo debutto dà il via a una fase ascendente, fino al suo capolavoro ("Uzak", suo terzo film), cui segue una svolta accademica ed estetizzante. Se con "Il piacere e l'amore" era ancora su ottimi livelli, con questo "Uc maymun" sfodera tutta la maniera di chi è troppo consapevole del proprio talento. Il pessimismo non gli è mai mancato, ma se prima sfociava in quieta rassegnazione, ora raggiunge livelli leopardiani, sottolineato da una fotografia mai così funerea. La morte è sempre incombente e si palesa nel fantasma del figlio del protagonista, deceduto in tenera età. Il padre è invece in carcere dopo essersi autoaccusato di un crimine che non aveva commesso al fine di scagionare un potente politico, suo datore di lavoro: questo evento consente all'autore di ritornare sul tema della distanza: di luoghi, tempi e sentimenti. Ma qui il "raffreddamento" è troppo esibito e si fatica ad appassionarsi, anche perché per la prima volta il regista si cimenta con una sceneggiatura, se non di ferro, senz'altro parecchio articolata. Troppe infine le scene già viste, a partire dall'immancabile passeggiata sul molo. In "Uzak" in mezzo a una nevicata epocale, qui sotto un sole torrido. Sul registro: 6
Waltz With Bashir, di Ari Folman - Israele, Francia, Germania
Nel raccontare la prima guerra tra Israele e Libano, il regista Ari Folman sceglie il punto di vista peggiore: quello degli occupanti. Per giunta, l'approccio psicologico (trauma e rimozione), con i tormenti degli israeliani che non riescono a ricordare ciò che accadde nella strage di Sabra e Chatila, la quale occupa le ultime scene del film. Le più riuscite, poiché di fronte all'orrore l'autore preferisce abbandonare commenti e mediazioni (persino quella dell'animazione: le ultime immagini sono cinema "normale"), mostrandoci le facce sconvolte delle vittime. Fin lì, però, un cartone imbevuto di scaltri espedienti (ironia fuori luogo, immagini tendenzialmente spettacolari e di indubbio fascino, musiche ruffiane che alternano rock ad atmosfere alla Badalamenti, persino una sequenza pornografica ma divertente) e riferimenti (i film sul Vietnam) di matrice occidentale. Forse per le idee politiche del presidente di giuria, "Waltz With Bashir" è fortunatamente tornato a casa a mani vuote, ma è prevedibile un successo di critica pressoché unanime. Sul registro: 5
UN CERTAIN REGARD
Tulpan, di Sergey Dvortsevoy - Germania, Svizzera, Kazakistan, Russia, Polonia
Un polverone accecante sollevato da una mandria apre e chiude questo sorprendente film ambientato nella steppa kazaka. E' difficile girare bene in spazi immensi, ma il regista ci riesce alla grande, con uno stile nervoso, personalissimo, fatto di rapidi movimenti di macchina laterali che congiungono i volti dei protagonisti o svelano particolari inaspettati. La storia è una di quelle che si ripetono da secoli (da qui il suo apparire e scomparire, come una parentesi, dietro alla polvere) e che mostrano una condizione sociale da cui è impossibile uscire (da qui la struttura circolare). Ma da cui spesso si sceglie di non uscire. Terminata la leva in marina, Asa torna nella steppa dalla sua famiglia; potrà diventare pastore se riuscirà a trovare una moglie, che potrebbe essere la misteriosa Tulpan, il suo oscuro oggetto di desiderio, ma anche il simbolo dell'impossibilità della fuga. Potrebbe sembrare una favola, se non fosse per il crudo realismo con cui è raccontata. Il regista, che proviene del documentario, non risparmia scene raccapriccianti: respirazioni bocca a bocca tra uomo e animali agonizzanti, carcasse in putrefazione, ferite infette, fino al parto di una bestia, che in fondo è quanto di più naturale ci sia.
Non certo il film estetizzante che ci si aspetterebbe, per quanto non manchino scene visivamente straordinarie, momenti di poesia autentica, di attesa, di tensione. E di divertimento, che tuttavia cela sempre una realtà drammatica. Ma "Tulpan" è anche di più: il tenue racconto di un testardo corteggiamento, nonché del difficile approdo all'età adulta, inevitabilmente accompagnato da un confronto generazionale. E ci regala personaggi memorabili, come i due ragazzi, come il bambino che ripete a memoria le notizie del giornale radio, unico contatto con il mondo civilizzato se si esclude la musica (quella diegetica è l'unica che ascoltiamo) e qualche rivista erotica, o sua sorella che canta a squarciagola con effetti cacofonici. Vincitore della sezione: non poteva essere altrimenti. Sul registro: 9
QUINZAINE DES REALIZATEURS
Cztery noce z Anna (Quattro notti con Anna), di Jerzy Skolimowski - Francia, Polonia
In una cittadina post-industriale polacca, Leon Okrasa, trascorsi alcuni anni in prigione con l'accusa di aver stuprato una collega, si innamora di lei. A sua insaputa la segue, la spia, si introduce nottetempo in casa sua. Skolimoski torna alla regia con un film insolito e straordinario, di grande umanità, che richiede una buona dose di pazienza per capire l'intreccio, ripagata però da un'ultima mezz'ora da pelle d'oca. La volontà di far del bene dell'individuo va a cozzare contro una società fondata sul sospetto che non ammette le buone azioni senza secondi fini. Come quelle dell'indimenticabile protagonista, agghiacciante nella sua follia a fin di bene, interpretato dal bravo Artur Steranko, cui si può imputare solo qualche eccesso nell'espressività facciale e nei movimenti. Quanto a statura minuta e timidezza, Leon Okrasa può ricordare vagamente certi personaggi di Gogol. Il regista lo immerge in un paese stregato, in cui succede di tutto e ne racconta la vicenda praticamente senza dialoghi, sfoggiando un talento narrativo invidiabile. Il risultato è una cupa favola gotica, in cui il lieto fine è inevitabilmente negato. Imperdibile. Sul registro: 8,5
Dernier Maquis, di Rabah Ahmeur-Zaimeche, Francia, Algeria
Il musulmano Mao è un piccolo imprenditore che decide di aprire una moschea, che verrebbe frequentata dai suoi operai. Con loro ha buoni rapporti, fino a che l'impresa non va incontro a improvvise difficoltà economiche. Il soggetto sarebbe anche interessante quanto ad attualità, ma tutto è abbozzato e schematico. Il che potrebbe essere giustificato dalle ambizioni da pamphlet dell'opera, ma la mancanza della ensione drammatica e del ritmo necessari rendono il tutto inefficace. Resta il mistero di cosa ci faccia a Cannes un film del genere, realizzato con scarse idee e regia nulla. Sul registro: 4
Eldorado, di Bouli Lanners - Belgio, Francia
Yvan, commerciante di auto d'epoca, sorprende Elie intento a rubare a casa sua. Non solo decide di perdonarlo, lo accompagna anche a casa. I due sono talmente diversi che finiranno, ovviamente, per andare d'accordo. Comincia così un classico road movie che, tra personaggi improbabili e situazioni grottesche, riesce a strappare qualche risata. Ma lascia tutto in superficie e quando cerca di approfondire (ad esempio, i motivi per cui Elie è simpatico a Yvan), va incontro a un facile psicologismo. E proprio mentre inizia ad appassionare, fa sopraggiungere un finale tirato via.
Sul registro: 5
Salamandra, di Pablo Aguero - Argentina, Francia, Germania
Insoddisfatta della vita borghese, Alba raggiunge una comunità hippie situata in una zona denuclearizzata della Patagonia e dotata di tutti i sacri crismi: fede cristiana, costumi sessuali lascivi, sporcizia, produzione e consumo di droga (la svolta vegetariana giungerà nella dimora successiva). Con sé ha portato il piccolo Inti, con cui cercherà di costruire un rapporto materno. Il regista si cala in questo mondo con la giusta crudezza e con stile personale (solo un po' compiaciuto), schivando soluzioni idealistiche. Ne esce un film che sembra fatto apposta per non piacere (non male per un'opera prima), interessante ma alla lunga un po' stucchevole, per la mancanza di sterzate narrative convincenti. Sul registro: 6
ECRANS JUNIOR
Diari, di Attilio Azzola, Italia
Tre episodi sulle vicende perlopiù sentimentali di un gruppo di adolescenti, italiani e immigrati. Un film piccolo piccolo, che sconta la penuria di mezzi e la scarsa autorità del regista, debuttante, che non riesce a imporsi nel dirigere i giovani attori. Ma se si entra in empatia coi personaggi, non si può che apprezzare il garbo, l'onestà, persino la poesia di quest'opera ottimista, che dà l'integrazione per assodata: gli stranieri parlano italiano anche in casa, mentre diffidenza e intolleranza sono praticamente assenti. A giudicare dal premio attribuito al film e dallo scrosciante applauso in sala, l'empatia scatta facilmente. Sul registro: 6
DINTORNI - OMAGGIO AL BERGAMO FILM MEETING
Miehen Tyo (Un lavoro da uomo), di Aleksi Salmenpera, Finlandia
Juha è un padre di famiglia che ha perso il lavoro: per raccattare un po' di soldi, decide di diventare un "accompagnatore", che è l'anticamera della prostituzione. Il classico film che divide. Si può apprezzare per la professionalità di regia e recitazione, nonché per le tematiche a sfondo sociale (la disoccupazione, la solitudine degli anziani). Ma è anche lecito tacciarlo di furbizia: i colpi bassi si susseguono, come nei peggiori film di von Trier (il protagonista ha figli piccoli, spesso è sanguinante per le ferite, anche autoinflitte, che rimedia; tra le clienti c'è una ragazza down) e non mancano scene ruffiane, tra l'ironico e il pruriginoso (una donna necessita di una lezione di sesso orale). Non basta inoltre l'impassibilità del protagonista per giustificarne la redenzione, che giunge dopo troppo poche avvisaglie, in un finale tagliato con l'accetta. Alla fine, la morale conservatrice è che certe scelte rovinano le famiglie. Discutibile dunque la Rosa Camuna d'oro. Sul registro: 5
Una piccola storia, di Stefano Chiantini, Italia
Tre scalatori, Gianluca. Federico e Alessandro, si occupano di mettere in sicurezza le pareti rocciose. Una sera scatta l'emergenza: una frana minaccia un paesino abruzzese, ma gli abitanti sembrano sottovalutare il pericolo. Le tematiche potenzialmente non sono male, ma il cinema latita: sembra di assistere a uno sceneggiato di Raitre, scritto e recitato con molta approssimazione, tra improvvisi moti di rabbia e improbabili squarci onirici. L'onestà di fondo (il ricorso all'espediente estetizzante del panorama ameno è molto contenuto) e la scarsità di mezzi lo rendono sopportabile, ma il film è confuso e claudicante, incapace di fare emergere un lato esistenziale o uno sociale. Sul registro: 4,5