Ci lascia a 63 anni, forse suicidio. Ma noi vogliamo solo ricordare alcune sue caratteristiche sul set: per quelle e solo per quelle lo abbiamo amato incondizionatamente. Una carriera da vero divo, ma sempre mantenendo una certa distanza dai successi planetari della Hollywood più lucente
Scorrendo la filmografia di Robin Williams, ci siamo accorti che l'unico film che ci è venuto naturale menzionare è datato 2002, quell'Insomnia di Christopher Nolan che lasciò non poco di stucco il suo pubblico affezionato per la virata espressiva del loro beniamino. Dopo, è seguito un decennio di titoli più che altro buoni per una rastrellata di dollari al botteghino oppure ruoli da spalla del protagonista. Scrivere ora qualcosa che vada oltre lo sterile epitaffio è arduo, tanto più che si tratta di una star conosciuta da tutti, un volto noto non solo agli appassionati di cinema full time, ma anche dagli spettatori occasionali.
Williams non era solo una star di Hollywood, un attore di primissima grandezza, ma era anche un divo da giornali di cronaca rosa, da tabloid buoni per chi segue il cinema distrattamente, un ospite da audience alto sicuro nei talk show. Era, insomma, una delle celebrità più famose d'America, in assoluto. Per ricordare qualcosa di lui, una piccola webzine non può certo mettersi a farne un ritratto a tutto tondo, riepilogare per l'ennesima volta i suoi passati di droga e alcol, i suoi matrimoni falliti, i suoi problemi economici diventati addirittura urgenti nella fase finale della sua vita. Piuttosto, vorremmo spendere poche righe per sottolineare alcune caratteristiche del suo modo di affrontare il lavoro.
Quando all'inizio del nuovo millennio aveva infilato uno dopo l'altro una serie di pellicole in cui non solo lasciava da parte il consueto atteggiamento da commediante straripante (quello già lo aveva fatto più volte e con grande successo in passato), ma si cimentava anche con personaggi fortemente negativi, che gli diedero l'opportunità di scandagliare il lato più oscuro del lato umano, a chi gli chiedeva che cosa ci trovasse in questi nuovi panni aveva risposto: "E' affascinante impersonare dei bastardi, non hai l'obbligo di arrivare vivo alla fine del film". In Insomnia interpretava uno scrittore che aveva commesso un terribile errore, uccidendo una giovane di cui era invaghito e affrontava il senso di colpa con cinismo quasi ingenuo, portando dentro il personaggio una sorta di estraneità alla malvagità.
Vi risparmieremo i luoghi comuni sul comico triste. Ma vogliamo sottolineare la sua inesauribile curiosità, la voglia di sperimentare sempre qualcosa di nuovo, percorrere strade che erano apparentemente sconosciute alle sue corde. Come spiegare altrimenti il passaggio dagli abiti cartooneschi di "Popeye" al deejay in Vietnam di "Good Morning, Vietnam", dal professore che insegna il coraggio della cultura ne "L'attimo fuggente" al ruolo del lucido pazzo dilaniato da un lutto ne "La leggenda del re pescatore"? E poi "Mrs. Doubtfire", con i suoi clamorosi cambi di voce che ne esaltavano le doti di vero istrione sulla scena; il remake de "Il vizietto", "Piume di struzzo" in cui faceva il verso al nostro Ugo Tognazzi; e poi "Jack", "Harry a pezzi", fino a "Will Hunting", il cui ruolo scritto per lui dalla coppia Affleck-Damon gli permise finalmente di calcare il palco degli Oscar per ritirare la statuetta al suo quarto tentativo.
Non è stata una carriera caratterizzata da pietre miliari della storia del cinema. Forse perché la pietra miliare dei suoi film era lui, che portava ogni volta davanti alla cinepresa le virtù tipiche di un vero showman a tutto tondo (su Internet impazzano ad esempio i suoi monologhi teatrali, con il pubblico che sovrasta la performance con risate assordanti). Era un divo che, dicevano alcuni che non lo amavano a Hollywood, si mangiava la scena, oscurava i colleghi, aveva un feeling particolare con il set e con la macchina da presa. Alcune volte, questa eccessiva generosità, lo portava a debordare, a sbagliare alcune scelte, a gigioneggiare fin troppo approfittando di soggetti che puntavano tutto proprio sulle sue abilità da mattatore assoluto.
Ma quando (poche volte in realtà) ha incontrato dei grandi registi che ne hanno saputo modellare, senza tradirlo o ammorbidirlo, il suo potente carisma, Robin ha dato il meglio di sé: Robert Altman, Peter Weir, Terry Gilliam, Mike Nichols, Francis Ford Coppola, Woody Allen avevano colto il suo talento più profondo per il cinema, la sua classe nell'immedesimarsi in personaggi a lui molto distanti. E più gli erano lontani, più lui li faceva sentire vivi. Ecco perché odiava le categorie, si arrabbiava se lo consideravano un comico o, peggio, un comico che era passato al "cinema impegnato". Diceva: "Trovo strana quest'abitudine della stampa americana - che è anche degli Studios - di classificare gli attori per categorie a seconda del loro valore commerciale. Mi fa venire in mente il mercato degli schiavi: ‘Quanto vale questo schiavo? Lavatelo e portatelo nella mia tenda!'".
Gli sia lieve la terra, ora, e soprattutto, gli vengano risparmiate tutte le ovvietà sulle sofferenze del suo cammino terreno.