La fulminante serie di Christopher Storer, che racconta la storia di un giovane chef del mondo dell'alta cucina, deciso a tornare a Chicago per gestire la paninoteca italiana di famiglia dopo il suicidio del fratello maggiore
Creata da Christopher Storer e andata in onda su Hulu nel giugno 2022, per poi beneficiare nei mesi successivi di una più vasta distribuzione grazie a Fx e Disney+, la prima stagione di "The Bear" condensa in otto episodi tesi ed emozionanti una storia apparentemente semplice, quella del ritorno del pluripremiato e pluristellato chef Carmen "Carmy" Berzatto (Jeremy Allen White) alla paninoteca di famiglia, nel cuore dei sobborghi di Chicago. Grazie alla sua semplicità e a un pugno di personaggi per i quali è impossibile non provare empatia, la serie è diventata in poco tempo un fenomeno globale, così che per la sua seconda stagione, approdata su Disney+ da pochi giorni e composta da 10 episodi, hanno preso parte al cast super star del mondo cinematografico e televisivo quali Olivia Colman, Will Poulter, Bob Odenkirk e Jamie Lee Curtis. Pur perdendo un po’ della magia indie del debutto, alla cui mancanza sopperisce aggiungendo introspezione e romanticismo, la seconda stagione mantiene tutte le promesse fatte da Storer con la folgorante prima.
Una storia di drammi e sentimenti familiari: il fratello Michael si è ucciso da poco e, senza alcuna spiegazione, ha lasciato in eredità a Carmy "The Original Beef Of Chicagoland" (ispirato al vero ristorante "Mr. Beef", situato nel quartiere di Orleans e frequentato assiduamente da Storer), nella non proprio ridente zona di River North. Lo staff con cui è costretto a che fare non è dei migliori: la gestione del migliore amico di Michael, Richard "Richie" Jerimovich (Ebon Moss-Bachrach), non brilla per ponderatezza, i debiti destano più di una preoccupazione e la situazione igienica fa acqua da tutte le parti. Lontano anni luce dalle condizioni "chirurgiche" in cui è abituato a lavorare, Carmy, al quale lo strepitoso Jeremy Allen White regala un'interpretazione fisica e struggente tutta nervi a fior di pelle e sguardi penetranti, vivrà l'eredità come una missione e farà di tutto per salvare il ristorante dalla chiusura. Per riuscire a riportare igiene, disciplina e clienti in quello che da adorato ristorantino di quartiere si è trasformato in una bettola, il cuoco di origini italiane assumerà la preparata sous chef Sydney Adamu (Ayo Edebiri), intenzionata a lavorare al "The Original Beef Of Chicagoland" in quanto ristorante preferito del papà.
Pur partendo da uno spunto piuttosto classico, grazie al suo sorprendente stile narrativo e all'efficace scrittura dei personaggi, nonché alla loro interpretazione, "The Bear" si è affermato come uno dei casi televisivi (e streaming) degli ultimi anni ed è stato giustamente salutato dal pubblico e da gran parte della critica come uno dei più riusciti serial del nuovo decennio. In realtà, si tratta di una messinscena tutt'altro che semplice, di un'operazione sofisticata, che tanto deve al cinema indipendente americano (Solondz, Baumbach) e che riesce a scaraventare lo spettatore nel cuore delle vicende, facendogli esperire un concitato vortice di emozioni, ora dei colori della tragedia, ora dei toni di una nervosa e amara commedia. Gli otto episodi di "The Bear" sforano raramente i trenta minuti (solo in un caso i quaranta e in un altro l’ora di durata) e garantiscono un'immersione totale nelle vicende di Carmy e della sua brigata, impedendo a chi guarda di tirare il fiato fino alla fine di ciascuno di essi.
In cucina
Ci vuole un po' ad abituarsi ai ritmi frenetici di una cucina, ai modi bruschi della brigata, alla musicalità angolosa del trash-talking, al rumore assordante delle pentole sbattute sui fornelli che si affastella a quello dei piatti sporchi lasciati affondare nell'acqua del lavandino industriale, ai fumi delle pietanze in preparazione che si incrociano sotto le luci al neon della stazione insalate e dessert, ai "watch your back" e ai “behind” urlati compulsivamente per evitare una coltellata alle spalle. Che si tratti della preparazione dei piatti o di un servizio indiavolato, dove i bigliettini delle comande fioccano come neve al Polo Nord, in cucina non si respira. Ed è lì che la serie è ambientata quasi nella sua interezza: assistere ai primi episodi di "The Bear" è come entrare in servizio in una cucina per la prima volta: stranianti, bruschi, ipercinetici, vibranti di un'energia impazzita, a tratti anche ostili. Con i suoi dialoghi serratissimi, praticamente un fuoco incrociato di scambi di natura personale e ordini da preparare, il montaggio frenetico e le telecamere a mano incollate ai corpi e alle facce dei cuochi, "The Bear" compie il prodigio di fare sentire lo spettatore dentro l'habitat in cui si muovono i suoi protagonisti. Di fargli percepire tutto il loro stress, la pressione del servizio, il sudore e l'angustia degli spazi tra i banconi e l'area fornelli, ma anche la loro passione vibrante, l’amore per quello che fanno.
Questo approccio iperrealista viene portato al suo estremo nell'episodio numero 7 della prima stagione, "The Review". Venti minuti spaccati dentro l'occhio del ciclone di una giornata no: tutto cade a pezzi nella cucina del "The Original Beef Of Chicagoland" e il lavoro sinergico di fotografia, montaggio e sceneggiatura riesce a far percepire in modo nitido la brutalità del tonfo, come in un attacco d'ansia.
È chiaramente fondamentale da questo punto di vista l'apporto di un cast formidabile, che fa del suo meglio non soltanto nelle sezioni parlate, ma anche attraverso la gestualità concitata, le facce che si corrucciano, i bicipiti che guizzano affettando vegetali o spadellando, gli addomi che si rilassano nei rari momenti in cui si può tirare il fiato.
In ricostruzione
La cucina del "The Original Beef Of Chicagoland" è vissuta, ha la polvere e qualche vecchia comanda accartocciata sotto i banconi e le macchie di sugo sulle pareti. Sembra una ferita aperta. Malconcia com'è, funge da specchio delle umanità sofferte che la popolano e da luogo deputato alla loro ricostruzione. Un processo lento sul quale si fonda poi la seconda stagione nella sua interezza.
Al centro delle vicende vi è chiaramente l'elaborazione del lutto per la perdita di Michael, che riguarda due personaggi diversamente tormentati come Carmy e Richie, i quali useranno la cucina per ritrovare sè stessi. Allo stesso modo, tra quelle quattro pareti, troveranno la loro rinascita numerosi altri personaggi, così veri e sinceri da rendere impossibile non affezionarvisi. Spiccano su tutti l'addetto a pane e dessert Marcus (Lionel Boyce), alla ricerca di una direzione e della lievitazione perfetta, la burbera Tina (Liza Colón-Zayas), che mal sopporta il vento di cambiamento portato da Carmy e Syd, ma soprattutto quest'ultima, una dei comprimari più affascinanti ed empatici della recente storia televisiva.
Durante gli otto episodi della prima stagione vediamo ciascuno di essi ritrovarsi a poco a poco, ognuno al suo turno, come nella composizione in divenire di un nuovo menù. Ed è ovviamente la cucina stessa a offrire loro la chiave di volta per la definitiva ribalta, restituendo loro la ricetta della felicità in un magico finale che soffrigge aglio, cipolla, pummarola San Marzano e "Let Down" dei Radiohead.
Contando su un minutaggio complessivo maggiore, la seconda stagione di “The Bear”, nella quale vediamo Carmy e la sua brigata alle prese dei preparativi per l’apertura del ristorante deputato a prendere il posto del fu “The Beef Of Chicagoland”, approfondisce maggiormente i personaggi di contorno, dedicando ad alcuni di essi interi episodi, alcuni certamente tra i migliori dell’intera serie. È il caso di “Honeydew”, in cui seguiamo Marcus fino a Copenhagen dove limerà alcuni suoi aspetti e realizzerà il dessert perfetto per il nuovo menù, e ovviamente “Forks”, dove il Richard "Richie" Jerimovich di Ebon Moss-Bachrach si prende finalmente la scena dimostrandosi definitivamente come uno dei migliori personaggi spalla del nuovo millennio seriale.
Sempre emozionalmente intensa, la sceneggiatura di "The Bear" alterna tre registri. Il primo, di cui si è già ampiamente detto, è quello realista, ma è l'alternarsi degli altri due – quello ironico e quello melodrammatico - a garantire la riuscita della serie, anche in termini di coinvolgimento, generando una forte empatia tra i personaggi e gli spettatori.
Le giornate senza sosta della brigata sono infatti spesso intrise di umorismo nero. Si ride e di gusto, ma le battute e gli accadimenti, tra coltellate nel culo e flaconi di barbiturici sciolti nel cocktail per bambini, sono così cattivi che quasi ci si sente in colpa. È invece nelle frettolose pause sigaretta, nei rari incontri tra Carmy e sua sorella, o in una cena cucinata e consumata da Sydney e Marcus, finalmente senza la pressione snervante del ristorante, che toni più melò ci permettono di entrare in una sintonia quasi intima con i personaggi e le loro vulnerabilità. Accade però soprattutto nel rivelatorio flashback che ci mostra la famiglia Berzatto riunita a cucinare braciole attorno al sorriso del compianto Michael, un Jon Bernthal in un'apparizione fugace ma capace di bucare lo schermo con uno sguardo. Bernthal fa ritorno anche in “Fishes”, il sesto episodio della seconda stagione, una puntata flashback che merita certamente un approfondimento. Un’ora di durata, estetica retrò, sigla e titolo (“The Berzatto Family”) modificati come fosse una serie anni ’90 ne fanno una sorta di Christmas Special disfunzionale come la famiglia che immortala.
Donna Berzatto (una Jamie Lee Curtis intensa come non mai), la mamma di Carmen e Michael, non può piantarla di strepitare mentre cerca di gestire i preparativi per la cena di Natale, Michael litiga con zio Lee (un Bob Odenkirk deliziosamente insopportabile), i fratelli Faks fanno casino come ad ogni loro apparizione, i membri più equilibrati della famiglia si scambiano gli auguri in un turbine inarrestabile di rumori, voci sovrapposte, urla, timer che trillano e pentole che sferragliano. Una full immersion brutale in una famiglia disfunzionale e all’origine dei traumi di Carmy, che pur mitigati continuano a non incontrare risoluzione.
A Chicago
The "Windy City", come viene chiamata Chicago dagli americani, fa da sfondo alle vicende della famiglia Berzatto. Si fa presto però a comprendere come la città, specie nelle sue periferie più ruvide, sia in realtà una sorta di personaggio aggiunto. Non uno scenario immoto, ma un elemento vivo e capace di influenzare le scelte dei protagonisti. Carmy, Syd, ma soprattutto Richie e Tina non lottano soltanto contro i loro demoni e le situazioni famigliari irrisolte, ma anche contro la trasformazione che il quartiere di River North sta subendo. Al centro di numerose scelte e conflitti, vi è infatti la visione romantica della ristorazione da parte della vecchia squadra, per la quale servire la gente del posto come si faceva un tempo è quasi più importante dei profitti e della sopravvivenza stessa del ristorante. Una missione che si scontra chiaramente con la gentrificazione subita dai sobborghi della città.
I treni della metropolitana che sfrecciano sui ponti di ferro, i fumi che si levano dalle strade e dai comignoli, gli spacciatori seduti sugli scaloni agli ingressi delle case di quartiere sembrano danzare al ritmo di alcune delle canzoni indipendenti più belle mai prodotte a Chicago o ispirate dal suo fascino spigoloso. Nella meravigliosa e ricchissima colonna sonora di "The Bear", è dunque inevitabile trovare un'agrodolce "Via Chicago" dei Wilco o l'immarcescibile "Chicago" di Sufjans Stevens, che ci viene fatta ascoltare come alla radio, come se fossimo diretti noi stessi di buon mattino verso un turno al "The Beef of Chicagoland".
Sempre mantenendosi su coordinate indie e alternative, e con una forte predilezione per gli anni 90, per fornire alle giornate frenetiche dei personaggi il giusto commento musicale, la soundtrack si allontana però spesso e volentieri da Chicago. Ne scaturisce una compilation formidabile, che fa incontrare R.E.M., Pearl Jam, Counting Crows, Taylor Swift, i Replacements, Lcd Soundsystem, Genesis, David Byrne, Weezer e, ovviamente, i Radiohead di "Let Down", una canzone che probabilmente non era mai stata usata in modo così efficace prima d'ora. Una colonna sonora così indovinata da avvinghiarsi alle scene che commenta è l'ultimo elemento di una serie perfettamente bilanciata nei suoi ingredienti, che non risulta ridondante nemmeno nei suoi momenti più melodrammatici e che proprio per questo appare vera.
La performance mostruosa di Jeremy Allen White nella prima stagione è stata premiata sia nella penultima ultima edizione dei Golden Globes che nell'ultima degli Emmy, dove l'intera serie e altri interpreti hanno fatto incetta di premi.
Stagione 3: Never repeat ingredients, Subtract
Ai vari mantra che la brigata del ristorante/paninoteca più famoso del mondo seriale si ripete fino allo sfinimento durante i massacranti servizi, il più celebre dei quali è “Every Second Counts (ogni secondo conta)”, nella terza stagione della serie se ne aggiungono diversi, che Carmen decide di includere nella sua lista di “Non-Negotiables”, principi da tenere in cucina sui quali non transige. Due tra i più ricorrenti sono “Never repeat ingredients (mai ripetere gli ingredienti)” e “Subtract (sottrarre)”.
Se i cucinieri del “The Bear”, ormai scisso in due atomi (la vecchia paninoteca, baluardo del quartiere e dei vecchi clienti, e il ristorante d’avanguardia che punta dritto verso traguardi stellati), mettono a repentaglio la propria sanità mentale pur di aderire ai comandamenti emanati da Carmy, Christopher Storer e la sua squadra di showrunner sembrano ignorarli confezionando una terza stagione un po’ bolsa, narrativamente stagnante e pertanto lontana sia dalla folgorante prima che da una seconda non così ficcante, ma comunque pregna di elementi/ingredienti nuovi.
Se da una parte è vero che in generale “The Bear” non è una di quelle serie strutturate per intrattenere mediante una pioggia di accadimenti, bensì tramite lente evoluzioni caratteriali, interazioni, sfumature e situazionismo, con la terza stagione si ha davvero l’impressione di trovarsi davanti a un enorme punto morto, uno snodo sì carico di segnali, ma che per ora non indicano in alcuna direzione. Una buona parte della stagione vede la storia dei Berzatto proseguire in linea retta, banalizzandosi attraverso l’inseguimento senza se e senza ma della prima Stella Michelin. L’avvento del fantasmatico traguardo, e quanto questo conti per ciascun personaggio di più o di meno, inghiotte quasi del tutto ogni altra story-line.
Anche alcuni stratagemmi stilistici che rendevano la prima stagione così fresca ripetuti ad oltranza risultano scarichi della potenza originale. Vale per gli incalzanti battibecchi con gli assordanti rumori di cucina in sottofondo (questa formula raggiunge la tensione di un tempo soltanto nel terzo episodio), ma anche l’utilizzo insistente della colonna sonora a commento di scenari chicagoani – quando nel secondo episodio “Save It For Later” di Eddie Vedder fa da sfondo alle azioni quotidiane dei lavoratori più mattinieri della città (panettieri, camerieri, addetti alle pulizie) si ha quasi la sensazione di uno spot pubblicitario. Fortuna però che più di qualche scelta musicale azzeccata continui a piovere sulla serie, come quando (tanto per citarne una) l'inglesissima "Laid" dei James sguinzaglia strumming e falsetto alla festa di addio alla ristorazione di Chef Terry (l'inglesissima, manco a farlo apposta, Olivia Colman) tra vecchi amici e pizze surgelate.
Prendendo però la stagione per quello che probabilmente (speriamo) è, ovvero una sezione interlocutoria, non si può che apprezzare il solito enorme lavoro dell’intero parco attori e alcuni guizzi che da soli valgono il proverbiale prezzo del biglietto (o, in questo caso, dell’abbonamento a Disney+).
Anzitutto il primo episodio. 45 minuti al limite con l’esperimento in cui la storia non avanza, si impantana invece tra passato e presente, ingrippata tra ricordo e ruminazioni mentali. Carmy sbuccia piselli, riduce svariati ingredienti, impiatta filetti e li guarnisce con rametti inafferrabili. Ricorda i suoi maestri migliori, e quelli più crudeli. Il post-rock soffocante e ansiogeno di Trent Reznor e Atticus Ross permea col suo moto circolare la claustrofobia di un cuoco che non riesce a chiudere il piatto. Piatto che diventa sinonimo della vita relazionale.
L’altra mosca bianca è “Napkins”, episodio flashback dedicato alla comprimaria Tina (Liza Colón-Zayas). Diretta dalla brava Ayo Edibiri (che nella serie è Syd), è una puntata dolente che suona come un’ode a chi si rimbocca le mani per non affondare, ma anche alle famiglie acquisite, come può essere quella formata da un gruppo di compagni di lavoro e sventure, cruciali per farsi forza e tenersi a galla. Insieme al passato di Tina ci ricordiamo qui del potere salvifico del Original Beef Of Chicagoland, un luogo di ricostruzione andato smarrito con la trasformazione in The Bear, dove invece l’ambizione cieca e l’assenza di compromessi divorano il calore umano. Anche questa volta magistrale il cameo di Jamie Lee Curtis nel ruolo della madre psicotica di Carmy.
Stagione 1 – 9
Stagione 2 – 8.5
Stagione 3 - 7
titolo:
The Bear
titolo originale:
The Bear
canale originale:
Hulu
canale italiano:
Fx e Disney+
creatore:
Christopher Storer
produttori esecutivi:
Tyson Bidner, Joanna Calo
cast:
Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri, Lionel Boyce, Liza Colón-Zayas, Bob Odenkirk, Olivia Colman, Jamie Lee Curtis
anni:
2022