La pluripremiata serie di Peter Morgan che ripercorre cinquant’anni di regno di Elisabetta II, consegnando, insieme al ritratto della monarca, un lussureggiante quadro del Regno Unito e le sue istituzioni dal Secondo dopoguerra a oggi
Attivo come sceneggiatore e produttore (cinematografico, televisivo e teatrale) sin dai tardi anni 80, Peter Morgan ha sempre posto al centro della sua opera la relazione tra figure al potere e il contesto in cui esso viene esercitato. Primi ministri ("The Deal"), dittatori ("L’ultimo re di scozia"), presidenti ("I due presidenti", "Frost/Nixon") e, va da sé, reali ("The Queen") sono da sempre l’oggetto d’esame della lente d’ingrandimento dei suoi soggetti e sceneggiature. Una serie come "The Crown" sembra quindi a tutti gli effetti il punto di arrivo, la conclusione di un percorso votato a questo tipo di analisi. Il regno di Elisabetta II di Windsor, lungo 70 anni (secondo, dunque, soltanto a quello di Luigi XIV di Francia), offre a Morgan l’occasione per ritrarre oltre mezzo secolo di storia inglese (e non solo), portando sul piccolo schermo decine di figure storiche e inscenando numerose vicende cruciali (alcune molto note, altre meno) accadute nel Regno Unito dal Secondo Dopoguerra ai nostri giorni.
Il successo di un progetto di tale ambizione non poteva prescindere da un dispiego di forze gargantuesco. Nel corso di 6 stagioni i reali inglesi, i primi ministri e le numerose altre figure che vi hanno avuto a che fare sono stati interpretati da star cinematografiche e televisive di prima grandezza. Alla regia si sono succeduti solidissimi nomi del panorama televisivo britannico. Tra questi figura anche il celebrato Stephen Daldry ("The Hours", "Billy Elliott"), chiamato a dirigere ben 5 episodi, tra cui il pilot e quello che chiude la sesta stagione, inizio e fine della serie dunque. A osservare la precisione delle ricostruzioni e la varietà dei siti utilizzati, il comparto tecnico, la scenografia e i costumi della serie sembrano aver goduto infatti di un budget da produzione in costume hollywoodiana dei tempi d’oro.
Al netto di qualche flessione nelle due ultime stagioni, la solidità della sceneggiatura, i mezzi pressappoco illimitati messi a disposizione dalla produzione e un loro utilizzo attento ed efficace, hanno fatto di "The Crown", insieme ovviamente alla curiosità quasi pruriginosa suscitata da una dinastia come quella dei reali inglesi, hanno fatto di "The Crown" anzitutto una serie evento, ma anche una pietra di paragone per qualsiasi progetto affine a venire. La lunga serie realizzata da Morgan per Netflix è però anche una lunga e profonda riflessione sul tramonto di un’istituzione, quella reale, che viene raffigurata proprio a partire dal momento in cui i suoi scopi cominciano a sgretolarsi e il distaccamento dal popolo che è tenuta a guidare a farsi ineluttabile.
Mezzo secolo d’Inghilterra e oltre
La morte della regina Elisabetta nel settembre 2022 ha sì toccato la realizzazione dell’ultima stagione della serie, le cui riprese sono state sospese per un lasso di tempo a causa di alcuni luoghi coinvolti e del lutto nazionale, ma non ha portato la produzione di "The Crown" a ripensamenti in fatto di sceneggiatura. La serie si conclude dunque esattamente nel punto storico inizialmente pianificato da Morgan, ovvero nel 2002, anno del giubileo d’oro della regina – a 50 anni, dunque, dalla sua salita al trono. Il piano del creatore e showrunner Peter Morgan era dunque quello di "approfittare" di un regno longevo come quello di Elisabetta II di Windsor per raccontare, attraverso episodi fondamentali e personaggi di interesse popolare, la storia d’Inghilterra dal Secondo dopoguerra al nuovo millennio. La famiglia reale inglese, con il carico di carisma e mistero che porta con sé, è sempre l’osservata speciale delle vicende narrate, queste deragliano però molto spesso dalla storia della dinastia in senso stretto, coinvolgendo uno spettro di eventi e situazioni molto più ampio. Sono numerosi infatti gli episodi che, alla stregua di piccoli film laterali, raccontano intere pagine di storia, così come quelli dedicati a figure non appartenenti alla famiglia reale. Fanno parte del novero dei primi struggenti ricostruzioni di pagine drammatiche, come quella del disastro della cittadina mineraria di Aberfan o l’episodio dedicato alla cappa di smog che colpì Londra nel 1952. I numerosi episodi dedicati a personaggi estranei al mondo della corona spostano la lente su una vasta gamma di figure, che vanno da personaggi pubblici come Mohamed Fayed, attorno al suo empatico ritratto gira la miglior puntata della quinta stagione (ossia la meno riuscita di tutte), a nomi meno noti come quello di Michael Fagan, l’ingegnoso imbianchino che riuscì a infiltrarsi ben due volte a Buckingham Palace.
Un ruolo fondamentale lo svolgono poi i primi ministri inglesi che, succedendosi uno dopo l’altro al numero 10 di Downing Street, hanno una funzione sfaccettata e cruciale. Anzitutto sono i granelli di una clessidra immaginaria, fungono per lo spettatore da curioso punto di riferimento per collocare perfettamente nel tempo le vicende narrate. Succedendosi di mandato in mandato, sono poi il contraltare della regina e della monarchia, immutabili e perenni ospiti delle stanze reali. La funzione più importante dei ministri è però quello di collegamento, di punto di contatto, tra la monarca e i sentori popolari. Sono infatti moltissime le scene delle udienze tra Elisabetta e i primi ministri in cui questa deve confrontarsi con spinose tematiche di carattere sociale. Nel lungo ciclo di incontri che vedono la regina interfacciarsi con Winston Churchill, Tony Blair e tutti quelli nel mezzo a questi due poli, è poi possibile saggiare come la monarchia abbia perso progressivamente il contatto con il popolo inglese. Figure come Winston Churchill, affidato alla faccia arcigna ma rassicurante di John Lithgow, Margaret Thatcher, andata invece a Gillian Anderson, e ovviamente Tony Blair (Bertie Carvel), non hanno bisogno di presentazioni. La lunga parata di ben 8 primi ministri permette però allo spettatore di entrare in contatto con figure meno note e dirompenti, ma altrettanto interessanti, come l’ambizioso Anthony Eden (Jeremy Notham), che ebbe il compito di svezzare l’Inghilterra dalla figura di Churchill, e il (presunto) preferito della regina John Major (Jonny Lee Miller). A testimonianza dell’importanza della figura del primo ministro in "The Crown", va rammentato che idea di realizzare la serie sia occorsa a Morgan proprio durante la produzione di uno spettacolo teatrale basato sui colloqui tra la regina e i primi ministri.
Il grande stratagemma narrativo di Peter Morgan e della sua squadra di sceneggiatori, da identificare probabilmente come la chiave primaria del successo di "The Crown", consiste in una miscela equilibrata e indistinguibile di fiction e realtà. In "The Crown" coesistono infatti una ricostruzione accurata e realistica dei fatti storici narrati e una, invece, certamente plausibile ma fantasiosa delle reazioni a questi da parte della corte. Il team di scrittori dietro la serie ha quindi giocato con l’intrinseco mistero della famiglia reale e le sue dinamiche e con la curiosità atavica che il popolo, le testate di gossip e lo spettatore nutrono verso di essa. Nel corso di un racconto che si dipana per sei stagioni, sessanta episodi di un’ora circa e ben cinquanta anni di storia, assistiamo dunque alla versione fantasiosa, ma basata su contesti e dati reali, della vita della Regina Elisabetta e i suoi familiari e collaboratori. Con non poche licenze (alcune anche contestate dai portavoce dei Windsor), la serie fa entrare lo spettatore nel retroscena di fatti noti ai più soltanto nel loro aspetto superficiale, ovvero quello riportato da quotidiani e tabloid. La messinscena e lo storytelling sono così solidi e credibili nel loro mix di distacco reale e attinenza ai fatti, che è difficile non credere o perlomeno non venire rapiti dalla versione di Morgan.
La serie mostra un po’ di stanchezza soltanto nelle ultime due stagioni, in particolare nella seconda sezione della quinta e nella prima della sesta. Accade quando il contesto, progressivamente sempre più moderno, sottrae alla narrazione parte dell’alone mistico sprigionato dalla famiglia e impedisce l’utilizzo dell’imprinting più classico utilizzato per ritrarre i decenni più lontani. Non è peraltro un caso che gli episodi più deboli siano proprio quelli dedicati alla parabola di Diana (Elizabeth Debicki), dove la serie, proprio come del resto accadde alla famiglia reale, sembra subire la figura e non sentirsi a suo agio nell’utilizzo di un punto di vista diverso dall’usuale, austero sguardo dei Windsor. Solitamente accurata e credibile, nella fase finale della serie anche la scrittura di alcuni personaggi pecca di un po’ di approssimazione, come nel caso della famiglia Middleton, ma anche nella deriva esperita da Mohamed Al-Fayed dopo la dipartita di Diana e del figlio. La flessione dura fortunatamente poco e il vuoto lasciato da Diana, personaggio che letteralmente fagocita le puntate a cavallo tra quinta e sesta stagione, viene colmato da una lunga, interessante sezione dedicata al tramonto definitivo della famiglia reale – o perlomeno della sua rilevanza sociale. Sul finire degli anni 90 osserviamo il casato vivere un crepuscolo fatto di irreparabile disconnessione dal popolo inglese, durante il quale Elisabetta e Filippo tirano le somme della loro vita e gli eredi al trono, a partire proprio dallo zelante Carlo, sembrano poco più che figurine da giornaletto scandalistico.
Non la regina, la corona
Pur girando principalmente intorno alla figura di Elisabetta II, in realtà "The Crown" tiene fermamente fede al proprio titolo e si rivela, più che un biopic in formato seriale sulla monarca, come un ritratto della corona inglese nella sua totalità, composita di numerose e disparate sfaccettature. Guardando alla storyline principale della serie, quella per l’appunto della regina, si può quasi parlare della messinscena di una metamorfosi. Quella della giovane Elisabetta delle prime due stagioni che, incoronata prematuramente a causa della morte di cancro del papà (un Carlo IV interpretato al solito egregiamente da Jared Harris), dovrà superare le ritrosie e i dubbi iniziali, nonché la paura di non essere all’altezza e l’avversione verso le procedure di Buckingham Palace, per divenire progressivamente vera e propria emanazione della corona, aderendole in ogni significato piuttosto che indossandola e basta.
Lo stesso rigore che Morgan e la sua truppa hanno impiegato nel ricostruire le numerose epoche storiche nelle quali "The Crown" si dipana, è stato adoperato per far vivere allo spettatore l’esperienza della corona e dei suoi palazzi. Un mondo fatto di procedure antiche, funzionari di ogni sorta, consiglieri irreprensibili, mediazioni con politici e arcivescovi, e atavico mistero. Regole secolari che anche i discendenti diretti devono rispettare e subire, senza alcuna possibilità di deroga. L’attenzione di showrunner e scenografi ai dettagli è stata da questo punto di vista maniacale. Si pensi, tanto per dirne una, alla ricostruzione della sale destinate al filtraggio delle telefonate dirette alla famiglia reale, gremite di funzionari, cavi e bottoni d’altri tempi.
Il peso della corona non è un fardello esclusivo del monarca. La sua azione è più estesa di quanto si possa pensare e agisce a livelli talvolta imponderabili. Un’ulteriore raffigurazione riuscita della corona da parte della serie è proprio quella dell’influsso sortito da essa sull’intera ramificazione intergenerazionale dei Windsor. Se con il passare del tempo e delle stagioni Elisabetta e Filippo diventano essi stessi una promulgazione della corona, sono numerosi i personaggi che hanno con essa un rapporto controverso, fatto di drammatiche rinunce e dispute. Molto spesso gli episodi che spiano nella vita degli outsider della famiglia reale, partendo da noti episodi di cronaca che li vedono come protagonisti, sono tra i più riusciti dell’intera serie. Molto in risalto nelle prime stagioni, la figura del duca Edoardo (Alex Jennings), erede al trono che abdicò in favore del fratello Giorgio IV, è una vera e propria epitome di cosa significhi vivere ai margini della corona, in una situazione, nel suo caso, anche di profondo disonore. Il suo esilio dorato in Francia, dalla quale può fare ritorno in Inghilterra soltanto previo invito del fratello e poi della nipote, è una prigionia ontosa, cui anche il lusso, gli abiti di alta sartoria e i maggiordomi non possono restituire dignità.
Di ben diverso carisma è la figura di Margaret, sorella libertina di Elisabetta, prone a turbolente storie d’amore e restia a sottostare al giogo della corona. Il suo stile di vita, le sue scelte porteranno la regina ad alcune delle scelte più dolorose e controverse della sua carriera da reggente; mentre invece il suo fascino tornerà utile alla famiglia reale in numerose, divertenti situazioni mondane. Un ruolo simile tocca nell’ultima stagione al principe Harry (Flynn Edwards), che però, data la scarsa durata della sua parabola (gli eventi narrati dalla serie si fermano ben prima che questi diventi un vero e proprio elemento di disturbo per la famiglia) e il rapporto dicotomico con il fratello William soltanto abbozzato dallo script, non riesce a bucare lo schermo come avrebbe potuto.
Sua maestà la messinscena, sua altezza il casting
Volendo essere particolarmente severi, si potrebbero indicare alcuni episodi di ciascuna stagione come non all’altezza degli altri, in termini di scrittura o nella capacità di intrattenere, così come abbiamo fatto per la flessione vissuta dalla serie a cavallo delle ultime due stagioni. Non si può fare lo stesso, invece, per quanto riguarda il comparto tecnico e scenografico, entrambi senza macchia dal primo all’ultimo episodio. "The Crown" è un imponente spettacolo per gli occhi dal suo inizio alla sua conclusione. Gli interni dei palazzi reali e dell’abbazia di Westminster, tutti ricostruiti in studio, nella Lancaster House, a Parco Wrotham o nella Wilton House (tutte location situate a Londra e dintorni), sono stati realizzati con cura certosina, senza lesinare in dettagli o badare a spese. La fotografia sfrutta ampie vetrate, angoli d’ombra e strati su strati di antichi tendaggi per dare vita a un’atmosfera sacrale, solenne. Gli esterni sono altrettanto magnificenti e tra assolate colonie, ampi appezzamenti terrieri destinati alla caccia o al galoppo, giardini rigogliosi e scogliere scozzesi restituiscono l’ampiezza del Commonwealth e l’incredibile vastità dei possedimenti della corona.
Altrettanto grandiosi sono i costumi. Corone, mantelli, gioielli, pellicce e cappe, nonché i proverbiali abitini della regina con copricapo in pendant attirano l’attenzione per la loro natura eccentrica. A rendere davvero magnifico il reparto costumi della serie è però la maniera in cui gli abiti e le acconciature seguono meticolosamente l’evolversi dei tempi, come vengono ricostruite le mode dei periodi attraverso, ad esempio, gli iconici golfini e le messe in piega di Diana o gli abiti casual indossati dai principini e dai loro compagni al college.
Il tema principale della colonna sonora di "The Crow", che apre ogni puntata insieme agli ipnotici visual della sigla, è stato realizzato dall’arcinoto Hans Zimmer, mentre la colonna sonora vera e propria della serie è stata composta in ogni stagione da diversi autori di modern classical, tra i più noti di questi figurano Lorne Balfe e Rupert Gregson-Williams. Queste musiche di stampo classico sono però sempre pronte a ospitare inserti di ogni genere, anche questi sempre attenti all’evolversi delle epoche e che spaziano quindi dalla black music ballata dai soldati americani al finire della guerra alle hit dei Cardigans, dal big beat dei Chemical Brothers allo struggente canone scozzese per cornamusa che Elisabetta sceglie per il suo funerale. A sfruttare tutti questi elementi al meglio e a concertarli in una messinscena elegante, rigorosa, ma mai noiosa o stopposa, sono stati chiamati (oltre al succitato Stephen Daldry) numerosi nomi di spicco del panorama seriale britannico, tra cui spiccano Benjamin Carron ("Sherlock", "Andor"), Julian Jarrold ("This Is England") e Jessica Hobbs ("Broadchurch"). Guidati dalla scrittura precisa e astuta di Morgan, i registi hanno dato vita a una solida cronistoria dell’istituzione monarchica inglese dal secondo dopo guerra al suo inevitabile, lento declino.
Un elemento cruciale per la riuscita di "The Crown" è stato poi il casting. Sin dall’ideazione della serie, Morgan aveva preso la decisione vincente di utilizzare, nel succedersi delle stagioni, diversi interpreti per lo stesso personaggio. Non, dunque, trucco effetti digitali ad hoc per invecchiare i personaggi, bensì attori di diverse fasce d’età che ne potessero restituire accuratamente le mutazioni non solo fisiche ma anche caratteriali. La scelta di cambiare un attore ogni due stagioni per tutti i personaggi continuativi ha peraltro funto da catalizzatore dell’attenzione degli spettatori, curiosissimi di sapere quale super star avrebbe ricoperto quale ruolo al prossimo recasting. Clare Foy ha avuto l’onore di dare inizio alla vita da regina di Elisabetta, lavorando su un personaggio dal carattere forte, ma ancora non completamente forgiato, allineato alla sua funzione e ai simboli di cui è naturalmente portatore. Ha dovuto quindi dare vita a dubbi, incertezze e lavorare su una progressiva adesione di Elisabetta al ruolo di monarca e al raggiungimento delle altissime aspettative riposte in lei da corte e popolo. Nonché alla fase più carica di rinunce e contrasti (con il marito e con la sorella su tutti) vissuta dalla regina d’Inghilterra. A Olivia Colman è toccato, con il suo consueto camaleontismo fisico e verbale, l’onere di dare vita, invece, alla maturità di Elisabetta come regina, madre, politica e figura pubblica; mentre la faccia austera e scolpita dalle rughe di Imelda Staunton ha incarnato la fase finale della vita della regina, nella quale questa era ormai un’icona vivente. È straordinario poi il lavoro svolto da queste due sull’accento e sulla cadenza della regina, aderenti magnificamente non solo al modello originale ma anche all’impronta impressa dalla Foy.
È meno graduale, ma altrettanto riuscita l’evoluzione di Principe Filippo. La gioventù tumultuosa, a tratti controversa, del rampollo di casa Mountbatten passa per la fisicità dirompente e la faccia guascona di Matt Smith; mentre invece la fase senile, contraddistinta da saggezza e rispetto per l’istituzione ricoperta, ha il volto regale di Jonathan Pryce. In mezzo, pur meno rimarchevole per esigenze di sceneggiatura, troviamo una mezz’età affidata all’elegante Tobias Menzies. Anche Carlo ha due facce quasi dicotomiche. Da giovane veste quella di Josh O’ Connor, sensazionale nel prendere la forma di un erede al trono sognatore, in forte contrapposizione con il padre e desideroso di riformare l’istituzione della quale fa parte. Dominic West prende invece il testimone quando è il momento di rappresentare l’erede che vede sfumare ogni sogno riformatore a causa della longevità della madre, il protagonista di maldestre macchiette da tabloid come quella del Tampax di Camilla e, ovviamente, il padre dei principini orfani di Diana.
Il personaggio più continuo, nella sua natura di rottura, ma anche nella funzione narrativa che assume nel corso delle stagioni, è Margaret. Affidato a un’interprete carismatica dopo l’altra, Vanessa Kirby nella fase giovane, Helena Boham Carter nella mezz’età e Lesley Manville nelle ultime due stagioni, il ritratto della principessa è brioso, ribelle, ma ha marcati contorni malinconici e funge molto spesso da elemento defaticante nei momenti più tesi e solenni delle stagioni. È infatti la protagonista assoluta di episodi basati sulle sue avventure romantiche o sulle serate da vera diva del jet set. Meno convincente è purtroppo l’interpretazione della Debicky nel ruolo di Diana, davvero troppo concentrata su mossette e pose da civettuola, piuttosto che sul dare sostanza e spessore a uno dei personaggi cui è stato concesso un minutaggio davvero generoso. Il parco personaggio principali e relativi interpreti e sicuramente sontuoso, ma il lavoro svolto in termini di casting è stato egregio anche per quanto riguarda i personaggi minori (decine e decine soltanto tra i frequentatori e i dipendenti del palazzo) e quelli rilevanti ma soltanto per un ciclo di episodi, come i succitati primi ministri. È proprio questa fiumana di volti, costumi, accenti e procedure a rendere la ricostruzione della monarchia inglese operata da "The Crown" imponente e, molto probabilmente, impossibile da replicare.
Prima stagione: 8.5
Seconda stagione: 8
Terza Stagione: 8
Quarta stagione: 8.5
Quinta stagione: 6.5
Sesta stagione: 7.5
titolo:
The Crown
titolo originale:
The Crown
canale originale:
Netflix
canale italiano:
Netflix
creatore:
Peter Morgan
produttori esecutivi:
Peter Morgan, Stephen Daldry, Andy Harries, Philip Martin, Susanne Mackie, Matthew Byam-Shaw, Robert Fox, Tania Seghatchian, Nina Wolarsky, Allie Goss
cast:
Clare Foy, Olivia Colman, Imelda Staunton, Matt Smith, Vanessa Kirby, Helena Boham Carter, Jared Harris, John Lithgow, Jonathan Pryce
anni:
2016 - 2023