Con la terza e ultima stagione della prima serie originale italiana distribuita da Netflix si chiude il racconto del lato oscuro della Capitale, un mondo sotterraneo dove il destino di due ragazzi romani si mischia con il potere politico, criminale ed ecclesiastico che sorge tra le sponde del Tevere. L'epopea di "Suburra" si incastra, almeno inizialmente, come prequel dell'omonimo film di Sergio Sollima, una Gomorra in salsa romana forte del robusto romanzo della coppia Bonini-De Cataldo e sorretto da un cast di buoni attori, come Alessandro Borghi nel ruolo ormai rodato di Aureliano Adami e il convincente Giacomo Ferrara in quello di "Spadino"
Paranze romane
Non è difficile credere che il nostro paese offra un campionario pressoché illimitato di soggetti sul crimine e malaffare, intrighi che partono dalla bassa manovalanza e arrivano fino a chi detiene il vero potere: la presenza tentacolare della criminalità organizzata sul nostro territorio, nonché la disponibilità con cui alcuni soggetti della classe politica hanno stretto accordi con essa, l'utilizzo di contropartite sessuali per chiudere intese poco lecite e le ombre della corruzione, che si allungano fino alle stanze del Vaticano, rendono l'Italia e in particolare la sua capitale un set naturale dove convergono tutte le possibili ramificazioni della malavita.
Il cinema italiano avrebbe potuto rinnovarsi puntando sul genere per raccontare tutto ciò, ma si è, invece, nutrito solo sporadicamente delle infinite sottotrame che un tale contesto mette a disposizione, dimenticandosi tra l’altro di poter attingere a una solida base letteraria; tanto copiosa è stata, infatti, la produzione di opere crime della nostra narrativa negli ultimi lustri - si pensi alle saghe letterarie di Carlotto, Carofiglio, Carrisi e molti altri - quanto episodica e non sempre convincente la sua trasposizione cinematografica. Il pubblico decretò a suo tempo il buon successo di quel “Romanzo criminale” di Michele Placido, che nonostante i suoi difetti riuscì a imbastire un racconto corale e cupo quanto bastava per narrare le paraboliche gesta del Libanese e i suoi, ispirate alla banda della Magliana; impossibile non citare “Gomorra” di Matteo Garrone, che mirò dritto al cuore nero del paese con un risultato epocale. Non a caso, entrambe le pellicole venivano da due romanzi solidi e amatissimi, che hanno poi prodotto altrettante serie televisive di successo, anche fuori dai nostri confini. È dal genere puro che sono arrivati, però, i risultati forse più interessanti, con le opere del mai troppo compianto Claudio Caligari, "Non essere cattivo" in primis, e i film di Stefano Sollima.
Proprio Sollima metteva a segno, qualche anno fa, un colpo cinematografico di tutto rilievo con quella "Suburra" in cui incastrava talento narrativo e virtuosità di regia in un'opera malsana e senza speranza. Dunque, la serie di "Suburra", la cui prima stagione del 2017 diventa così il primo prodotto Netflix italiano, si inserisce in questo contesto sulla scia di una gomorra in salsa romana, forte del robusto romanzo della coppia Bonini-De Cataldo nonché di una prima scrematura di personaggi e situazioni del film omonimo, ponendosi cronologicamente, almeno per quanto riguarda le prime due stagioni, come prequel.
Vedremo così i tormenti del giovane Aureliano Adami, prima, molto prima di diventare Ernummerootto padrone di Ostia; eppure, lo sguardo etereo di Alessandro Borghi è già quello dell'assassino romantico che scatenerà una faida metropolitana nel film di Sollima; qui, invece, chiuso da un padre-padrone che non vuole dargli spazio e il pragmatismo della sorella maggiore Livia (nella convincente interpretazione di Barbara Chichiarelli), faticherà non poco per imporsi all'interno della sua stessa famiglia come capo supremo che deve decidere il destino del litorale romano. Insoddisfatto dei suoi stessi umori, perversamente sommersi dentro il ricordo della madre morta, ossessionato dal voler trasformare una baracca di pescatori nel locale più in voga della movida capitolina, Aureliano cerca al di fuori del cerchio parentale i complici giusti per scatenare i suoi demoni. Troverà due ragazzi opposti per temperamento, carattere ed estrazione sociale, ma in un certo senso a lui complementari, che chiuderanno un triangolo irregolare dentro il quale fare il salto e prendersi, se non il controllo, almeno il piatto più ricco che può offrire il malaffare capitolino: i terreni di Ostia e il business del suo porto. Sarà così proprio quello "Spadino" Anacleti, con il quale il futuro "Numero 8" si scontrava sanguinosamente in una delle scene chiavi del film di Sollima, a diventare passo dopo passo l‘alleato più fedele di Aureliano.
Personaggio bifronte come l'amato-odiato complice, Spadino è doppiamente diverso perché “zingaro e frocio”, come lui stesso si autodefinisce: fratello minore di Manfredi, capobastone degli Anacleti, famiglia sinti della periferia est della capitale che vuole guadagnarsi il giusto riconoscimento e rispetto all’interno della malavita romana, Spadino cerca come Aureliano di imporsi prima di tutto all'interno della sua famiglia. Non sarà facile perché, a parte l'onnipresenza del collerico fratello nonché di una figura matriarcale molto forte e di una miriade di cugini e altri pesci piccoli che cercano il loro posto al sole, Spadino deve fare i conti col matrimonio combinato a cui un accordo tra famiglie l’ha costretto, senza per questo tradire la sua omosessualità. Il terzo lato del triangolo si pone al di fuori di uno schema criminale prestabilito, per così dire, anzi riguarda il figlio di un poliziotto: lo studente universitario Lele (Eduardo Valdarnini), che complice un piccolo debito di droga si ritrova invischiato in un vortice più grande di lui.
La prima stagione
La prima stagione della serie, diretta da Michele Placido, Andrea Molaioli ("La ragazza del lago") e Giuseppe Capotondi ("La doppia ora") si apre con un'orgia bagnata nella droga che ricorda l'episodio del film omonimo dell'onorevole Malgradi finito nei guai con due prostitute; stavolta il protagonista è un alto prelato del Vaticano che subirà il ricatto di un video hard. Nonostante queste premesse, "Suburra" si allontanerà precocemente dalla potente visionarietà del film di Sollima, preferendo una sceneggiatura più serrata e dialoghi convenzionali, senza molti strappi, secondo il tipico linguaggio di una serie di impianto più mainstream. La costruzione televisiva racchiude ogni episodio dentro le ventiquattrore, aprendosi con la scena che chiuderà la giornata e assegnando così un’unità temporale molto raccolta, ma efficace e densa, che tiene il ritmo senza sbavature.
L'afflato ambientale, che contempla davvero tutti i risvolti della metropoli romana, dal lido di Ostia ai Parioli passando per il Campidoglio e i dintorni del Vaticano, fino alla periferia sud est e oltre, è reso con una certa consapevolezza. Il potere politico della serie è rappresentato da Amedeo Cinaglia (interpretato da Filippo Nigro) che si muove dal lato opposto del deputato di destra del film di Sollima; qui Cinaglia è un consigliere dalla forte ideologia movimentista, quasi da centro sociale; un sognatore, fuori tempo massimo, che infatti si convertirà all'andazzo corruttivo della politica locale romana, sconfessando anche l'area inciucista del suo partito. Speculare a quello di Nigro è il personaggio affidato a Claudia Gerini, la vigorosa Sara Monaschi, che utilizza i suoi buoni uffici in Vaticano per tessere una trama che dovrebbe consegnare all'azienda di famiglia l'affare sui terreni di Ostia. I due attori si dannano per cercare di personificare l’anima grigia della politica e della natura speculativa di certi interessi della Chiesa; insieme al personaggio di Lele, rappresentano la sponda ipocrita del Tevere, anche se forse solo la Gerini è convincente nella rappresentazione di una certa romanità perbenista e indifferente.
A tenere le fila del destino di tutto il reame del possibile è ancora l'ombra della cupola (anzi, del Cupolone) che ha il nome del Samurai (interpretato da Francesco Acquaroli), che sembra poter muovere come pedine chiunque, dall'ultimo dei pusher di Testaccio passando per i consiglieri del Campidoglio fino alle stanze adiacenti a quelle del Pontefice. Il suo scooterone che attraversa, sonnolente e rapace insieme, le vie consiliari della Capitale, è il simbolo di un potere mobile, ineffabile, che trae dalla sua ubiquità la sua stessa forza. Nemmeno quando il Samurai è costretto ad agire in prima persona, lascia una traccia, servendosi di guanti in pelle e di pistole rese silenti tanto quanto le sue future vittime.
Gli episodi cercano di sfruttare al massimo l'attualità: se è vero che il romanzo di De Cataldo-Bonini anticipava le inchieste di Mafia Capitale e il cosiddetto "mondo di mezzo", Suburra racconta le dimissioni del sindaco, con un riferimento nemmeno troppo velato alla vicenda Marino, nonché gli scandali che hanno toccato il Vaticano. La regia barocca di Placido, così amante dell'iperrealismo, si confà all'apertura scandalo della serie, e dona ai primi due episodi una riuscita aura malevola; eppure, le successive rigidità formali del racconto, seguite con meno disinvoltura dagli altri due registi, riusciranno solo in parte a sfruttare tutte le buone premesse iniziali.
La seconda stagione
La seconda stagione si avvale delle dinamiche collaudate e ripete pedissequamente, se possibile con ancora più consapevolezza, quanto già visto nella prima; c'è una bella apertura sulla vicenda di Livia, la sorella di Aureliano, che torna nella Capitale dopo un esilio a cui era costretta. La scena dell'incontro dei due fratelli possiede la giusta dose di pathos, anche se il personaggio di Livia verrà poi sacrificato forse troppo velocemente. Il pregio maggiore di questi episodi è quello di non rinunciare al vorticoso ritmo, a volte moltiplicando gli incontri tra i personaggi ma relegando molti dialoghi a un mero scambio di battute veloci e raffazzonate, che viaggiano sempre in superficie, a parte qualche rara occasione.
L'impianto narrativo, seppur solido, non ha più gli sprazzi incoerenti e allucinati dei primi episodi, e se a guadagnarci è una certa linearità della sceneggiatura, si perde quel tocco di follia che aleggiava sulla scena ogni volta che apparivano i personaggi di Aureliano e Spadino, grazie anche agli attori che li interpretano, il lanciatissimo Alessandro Borghi e la sorpresa Giacomo Ferrara. Anche l’insistenza sull’affare di Ostia tira un po‘ troppo la corda; il salto cronologico dalla prima stagione è di soli tre mesi, in cui tutto è rimasto in ballo finché verrà eletto il nuovo sindaco della capitale, con Cinaglia a fare da ago della bilancia nelle elezioni per mezzo di una lista politica personale. La disfida sui terreni del litorale continua e in qualche modo si avvita su sé stessa: i personaggi restano fedeli al loro mood tracciato nella prima stagione e cambiano casacca ogni due per tre.
Continuano così i rimandi alla cronaca politica più recente, come l'emergenza profughi; tuttavia, a parere di chi scrive, quest'ultima vicenda è raccontata in maniera del tutto gratuita, messa lì in maniera pretestuosa solo per donare alla serie un maquillage di attualità quando non di denuncia sociale. Le maglie della sceneggiatura si allargano a dismisura, ma all'ampiezza di campo corrisponde solo a sprazzi la giusta profondità: come detto, l'accelerazione continua sui dialoghi, incontri e situazioni che si accavallano a spirale sullo spettatore senza dargli tregua, non permettono però di scandagliare tutti i battiti del cuore che alcuni personaggi potrebbero dare. Ad esempio, il Samurai, vero burattinaio della nuova Roma, che si colloca a metà strada tra mondo criminale e l'aristocrazia degli "intrallazzi", avrebbe potuto divenire un personaggio da status shakespeariano da cui però resta lontano. Nel film di Sollima, l'ottimo Claudio Amendola era riuscito a trattare con equilibrio questa figura, una sorte di Giove romano, pacatamente feroce; la figura affidata al bravo Francesco Acquaroli è più bidimensionale, più trucida, come se il male avesse un solo fine.
Tuttavia, la seconda stagione si anima quando la sceneggiatura deraglia un po' dai binari già tracciati, portando alla ribalta tre personaggi femminili che lasceranno una traccia nello spettatore: Angelica, la moglie di Spadino, già presente nei primi episodi, che però qui acquisisce una sua autonomia caratteriale e si ritaglia una sottotraccia narrativa importante; Nadia, la nuova fidanzata di Aureliano, una versione meno allucinata di Viola, la sua compagna nel film, e tuttavia interessante nella sua mascolinità; ultima ad apparire, ma non questo meno incisiva, Cristiana, una collega di Lele (entrato nel frattempo in polizia), risoluta a scoprire il marcio che il ragazzo nasconde sotto la divisa per poi, forse, entrare a farvi parte. Sono tre ragazze dalla limpida umanità, e che nonostante appartengano a un campo preciso come i tre uomini che accompagnano, seguono leggi morali che non coincidono quasi mai con quelle della legalità, anzi, le piegano dentro un carattere affettivo. È questa una peculiarità che si cela dentro “Suburra”: personaggi del carattere perversamente romantico, che accettano mille compromessi, svendono e ricomprano la propria anima pagando ogni volta l'elevatissimo prezzo di chi è costretto a morire una volta di più del necessario.
Terza e ultima stagione
L'ultima parte di "Suburra" mette in fila, senza soluzione di continuità, ciò che aveva riempito le prime due parti: intrighi, affari, soldi e sparatorie; questa volta, però, almeno negli episodi iniziali, mancano l’adrenalina e il pathos che, nonostante qualche caduta, avevano retto nelle prime due parti. Quando il ritmo accelera, sbanda paurosamente, poiché non sorretto da una profondità di sguardo, e tutto quello che accade resta nel reame delle (cattive) intenzioni. La regia di Arnaldo Catinari (direttore della fotografia di lungo corso) appare più volte dismessa e manca una scrittura adeguata; persino la concezione originaria della serie, quella di porsi come prequel del film di Sollima e dunque di raccontarci "le infanzie dei capi", l’educazione alla violenza di Aureliano Adami e di Spadino, viene mandata clamorosamente in soffitta, in quanto le linee narrative intraprese (ad esempio, quelle che riguardano il Samurai, nonché lo stesso destino di Aureliano) prendono strade proprie.
A riempire lo schermo, una volta di più, ci sarà lo sguardo etereo e letale di Aureliano, insieme alle assurde battute di Spadino, mentre si attende l’ennesimo omicidio, la minaccia sopra le righe e un colpo di scena qualunque, che quando arriva, però, manca spesso il segno. Il cast, uno dei punti di forza della serie, sembra quasi scimmiottare sé stesso, e per alcuni episodi ci pare di essere di fronte a una parodia, ad esempio nelle scene in cui i due protagonisti bullizzano il politico Cinaglia, mentre si preparano un piatto di spaghetti nella sua cucina: una sorta di autocitazione, che però non diverte se non appunto come involontaria caricatura. Uno dei personaggi più interessanti, quello di Sara Monaschi, viene liquidato in quattro e quattr’otto con un cameo di cui è difficile comprendere persino la ragione.
Quella che dovrebbe elevarsi a grande coprotagonista degli avvenimenti, cioè Roma, viene trattata al pari degli altri caratteri in maniera un po’ raffazzonata. Stavolta, infatti, il mirino dei due criminali complici non si concentra solo su Ostia e il suo porto, ma punta dritto al cuore dell’Urbe, in occasione di un "Giubileo straordinario" che dovrebbe distribuire a destra e a manca le ricchissime prebende capitoline, ovviamente a chi ha gli agganci giusti in Comune e al Vaticano per andarseli a prendere. Pure, le differenze stracittadine, quel derby classista tra la periferia e il nord della città, accumula un cliché dopo l’altro e non contribuisce ad ampliare il campo di interesse degli avvenimenti narrati, anzi, cade nello stereotipo forzato e inevitabilmente lo restringe. Sparisce, infatti, ogni riferimento all’attualità che aveva costituito un elemento degno di interesse nella prima stagione.
Il personaggio più sfaccettato è così Amedeo Cinaglia, del quale ci viene raccontata la sua "carica eversiva" già in età adolescenziale: il politico diventerà un villain come gli altri, come Aureliano e Spadino, come le loro donne, come Manfredi, come tutti insomma. Ad ogni modo, negli ultimi episodi i toni diventano più cupi ma anche meno grotteschi, e alcuni incastri narrativi riescono finalmente a combaciare con quelli della prima stagione, così come i loro incipit; inoltre, i personaggi di Angelica e Claudia, la moglie di Spadino e la ragazza di Aureliano, intrecciano le loro paure dentro un’amicizia intensa, speculare a quella dei loro uomini, risvegliando l’interesse per il sofferto destino che le accomuna.
Il pericoloso aumentare dei morti ammazzati e delle violenze, alle quali non è nemmeno concesso un tentativo di estetizzazione per aiutarci a digerirle, mostra però un altro limite: una qualsivoglia idea di legalità, come se Roma fosse un pozzo nero in cui è annegata ogni forma di vita civile. Non solo non si intravede, se non di sfuggita, un solo rappresentante delle forze dell’ordine, ma nemmeno un batticuore di coscienza, se non nella vicenda che lega Spadino a suo fratello. Nonostante i continui duelli a colpi di pistola, gli omicidi a sangue freddo, gli inseguimenti in auto sotto una pioggia di pallottole, le vittime lasciate per terra in un bagno di sangue, i protagonisti scorrazzano tranquilli per la Capitale, con in tasca insieme ai telefonini le pistole automatiche e smerciando droga come se fossimo nel peggior far west urbano senza la minima regola.
Stagione 1: 6,5
Stagione 2: 6
Stagione 3: 4
titolo:
Suburra - La serie
titolo originale:
Suburra - La serie
canale originale:
Netflix
creatore:
Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Ezio Abbate, Fabrizio Bettelli, Nicola Guaglianone
produttori esecutivi:
Kim Gualino, Erik Barmack
cast:
Alessandro Borghi, Giacomo Ferrara, Eduardo Valdarnini, Claudia Gerini, Francesco Acquaroli, Filippo Nigro, Barbara Chichiarelli
anni:
2017 - 2020