È da poco terminata la quarta stagione della serie geek targata HBO. Facciamo una panoramica per scoprire come lo show di Mike Judge racconta il mondo dell'hi-tech attraverso una satira feroce e brillante
Il cinema e la televisione ci hanno raccontato che per avere successo i posti dove andare erano New York o Los Angeles, la Big Apple o La La Land. Ma un po' di cose sono cambiate: sono arrivati nuovi modelli a cui guardare, nuovi modi di intendere il successo. Nell'epoca della crisi e dell'hi-tech il sogno non è più raccogliere gli amici per formare una band o andare a Hollywood per diventare attori, ma circa trecento miglia più a nord, sotto San Francisco, vicino a Fresno, per fondare una start-up dove i colossi dell'informatica hanno costruito imperi e sfidato i giganti dell'economia. È la seconda generazione di self-made man del settore; la prima era partita da un garage, questa da una cameretta; l'una era quella di Compaq, di Gates e di Jobs ("Jobs was a poser, he didn't even write code"), l'altra quella degli Zuckerberg e Sean Parker, così di successo da rendere di moda l'imprenditore geek, giovane e geniale, capace di sviluppare e far fruttare un'intuizione "game changing".
Strano che nessuno ci avesse pensato prima a intuire il potenziale comico, a denudare questa ambizione, a smontare la favola e costruirci attorno ostacoli e una satira brillante. Il cinema ha già sperimentato il successo al botteghino del mondo dell'informatica: "
Steve Jobs" e "
The Social Network" (giudicato da Mike Judge uno dei pochi film credibili sull'argomento) sono esempi d'autore, e infatti Richard Hendricks, il protagonista di "Silicon Valley", ricorda vagamente il Jesse Eisenberg/Mark Zuckerberg, forse per questioni di marketing, ma rispetto alla figura di sociopatico che emergeva dal film di Fincher, è più docile, idealista e nevrotico. Crea un algoritmo fenomenale, capace di comprimere file come non è mai stato fatto prima: riceve un'offerta milionaria, ma la declina per costruire la sua azienda.
Dimentichiamo "Entourage", le ruffianate di "The Office" e le risate finte di "The Big Bang Theory" con le sue macchiette e un umorismo nazional-popolare, facile e innocuo: "Silicon Valley" gioca duro fin da subito. Ha la brillantezza di una mattinata soleggiata sulla West Coast dove tutto all'apparenza sembra perfetto, ma le insidie si nascondono – Richard infatti viene fregato subito da due ingegneri di Hooli. Una commedia tra tecnicismi commerciali e informatici, complicazioni burocratiche da emicrania, ma è un prodotto brillante e solido, sostenuto da una scrittura arguta che ne esprime al meglio lo spirito. In bilico tra volgarità e arguzia, condito da sarcasmo, dialoghi e battute fulminanti, usa e smonta gli espedienti della drammaturgia senza cadere nel banale. L'umorismo è asciutto, diretto, coerente, a volte politicamente scorretto, sostenuto dall'affiatamento del cast. La storia si sviluppa con continuità, puntata dopo puntata, con un arco narrativo spezzato da cliffhanger.
Ma quello che affascina è come "Silicon Valley" sappia non prendersi sul serio pur denigrando l'avidità e i limiti che si infrangono per ottenere quello che si vuole. Banditi i momenti stucchevoli, gli abbracci e le profonde scoperte, in favore di una satira feroce e a testa bassa.
HBO è come sempre una garanzia. Dietro il progetto ci sono Mike Judge ("Beavis and Butt-Head" e "Idiocracy") e Alec Berg (cresciuto sulle ginocchia di Larry David come Dan O'Keefe, un altro degli autori), John Altschuler e Dave Krinsky. Judge conosce il mondo che racconta e che dissacra: laureato in fisica, ha passato anni a lavorare come programmatore nella Silicon Valley, e con Alec Berg conduce regolarmente ricerche per valutare la verosimiglianza delle storie e delle situazioni, il "cosa succederebbe a questo punto". E il pubblico ha premiato proprio questa coerenza nella descrizione spietata dell'ambiente.
Gli sceneggiatori mantengono alto il livello della serie e garantiscono continuità allo stile, ma negli episodi firmati da Alec Berg, Dan O'Keefe e Clay Tarver si trova sempre qualcosa di più – una battuta o una situazione memorabile.
A livello narrativo, la drammaturgia segue i codici tradizionali, gioca con le aspettative e soprattutto le rovescia; come nel finale della seconda stagione in cui Richard cerca disperatamente di chiamare gli altri e una serie di inconvenienti lo trattengono; scena già vista, gli autori lo sanno e ce lo fanno capire, per questo ci viene il dubbio di come andrà davvero a finire. Le rivelazioni vengono sminuite, svuotate della magia tradizionale, portate verso il basso pur mantenendo la loro funzione; un esempio per tutti, il finale della prima stagione (vedi sotto). Finti coup de théâtre, entrate ad effetto mal riuscite, addii maldestri, momenti magici che invece si trasformano in situazioni imbarazzanti, stereotipi ed equivoci (Jack: Do you know what Pied Piper's product is, Richard? – Richard: Is... Is it me? – Jack: Oh God! No! No. How could it possibly be you? You got fired).
La regia è spesso curata dallo stesso Mike Judge, a volte da Alec Berg, ma chi è di turno esalta il ritmo e può contare sull’ottimo cast. Nelle varie interviste gli attori hanno dichiarato di improvvisare poco, ma (una curiosità) il giochino senza senso fatto attorno al tavolo ("Always Blue") è nato per ingannare il tempo sul set.
Ci si affeziona presto ai personaggi: il geniale e ansioso Richard Hendricks, indeciso di fronte a una scelta complicata, incastrato nei cinici giochi di potere; Erlich Bachman che con la sua arroganza, eccentricità e un ego smisurato compensa le insicurezze di chi lo circonda e si copre di ridicolo. Dinesh e Gilfoyle innescano meccanismi di rivalità reciproca che portano a liti, screzi “tecnici” ("You're gay for my code, you're code gay"), inaspettate alleanze, comici risvolti narrativi. Jared, inguaribile ottimista, dalla docilità innata, è figura protettiva, alleato fedele in modo imprescindibile a Richard; Big Head è quasi una maschera comica, incredibilmente lento, ma così fortunato da arricchirsi enormemente e finire per caso sulla copertina di "Wired" e a insegnare a Stanford. Monica è un'altra che crede ciecamente in Richard e lo supporta, unico sguardo normale in un mondo folle.
Alleati e nemici, come in qualunque favola: Gavin Belson, fondatore di Hooli (una specie di Google) e ricco imprenditore, despota e pieno di sé, è l'antagonista, colui che nella prima stagione contende il rivoluzionario algoritmo all'altro magnate, Peter Gregory; un rapporto che ricorda quello tra Jobs e Bill Gates (vecchia amicizia trasformata in rivalità). È anche la figura di cinico e avido arrivista a cui Richard non vuole somigliare, quello appartenente alla generazione precedente che dicevamo sopra.
Un tratto che sembra legare i personaggi è una sorta di fobia sociale, o comportamenti ai limiti dell'autismo. Richard ha i suoi tic, attacchi di panico, non ama essere abbracciato, viene scambiato per affetto da Asperger; Dinesh ha scarsissimo successo con le ragazze; Gilfoyle, completamente inespressivo, gode apertamente dei fallimenti altrui; e perfino Laurie Bream e Peter Gregory, pur coprendo posizioni di comando, non sembrano immuni a evidenti difficoltà comunicative.
L'abbigliamento è, come sempre nelle serie, cifra ricorrente: le polo a righe di Dinesh, le classiche camicie di Jared, Big Head che beve sempre Big Gulp e il completo geek per eccellenza che spesso Richard indossa, quasi un'uniforme: sneaker, chinos, camicia e felpa con zip e cappuccio.
Gli attori principali hanno tra i 30 e 40 anni: Thomas Middleditch (Richard) cresce episodio dopo episodio con il suo personaggio, esaltandone le manie ansiose, i tic facciali e le reazioni; T. J. Miller (Erlich) ha una fisicità invadente, una comicità esplosiva, e funziona perfettamente nel suo imbarazzante (per gli altri) e inconsapevole egocentrismo; Martin Starr (Gilfoyle) sembra non fare troppa fatica nel mantenere quella maschera di indifferenza e instancabile sarcasmo, parole e gesti misurati; Kumail Nanjiani (Dinesh) dà il meglio di sé nei momenti in cui viene umiliato, quando si lamenta e soprattutto quando ricapitola la situazione (citiamo il momento in cui fa notare a Richard che il prodotto che cerca di vendere è incomprensibile, tanto che lui stesso, "as the head of the company, cannot even describe it to another human being"); Amanda Crew (Monica) è un misto di ragazza della porta accanto, donna in carriera e con dei tratti un po' nerd; Zach Woods (Jared) infine è un attore straordinario che dovrebbe essere sfruttato maggiormente: il modo di parlare, i gesti e l'espressione, quel corpo gracile, alto e pallido contribuiscono a formare un personaggio docile, inconsapevole delle sue stranezze e protettivo, spesso investito del compito di spiegarci cosa succede.
Una moderna favola hi-tech, dunque. (Richard: We love the name Pied Piper. It's a classic fairy tale. – Jared: Well, I looked it up. It's about a predatory flautist who murders children in a cave). Ma ogni volta che il sogno di Richard sembra concretizzarsi interviene un ostacolo, dall'esterno o dall'interno. Come scrive Marc Eastman in "Are you screening": "quello che regge la serie è che da un lato si vuol vedere Richard vincere in quanto pesciolino in un mondo di squali, ma dall'altro è divertente vederlo schiacciato da un sistema di cui non vorrebbe far parte comunque (TdA)". Richard infatti agisce a fin di bene per il suo progetto, ma i meccanismi della Valley e le perverse regole del commercio gli si ritorcono contro.
Viene parodiato tutto: la sigla ricalca gli ultimi sviluppi dell'industria informatica, ironizzando fallimenti e successi di prodotti tecnologici, ad esempio i loghi di Uber e Lyft che si scontrano, i droni di Amazon che svolazzano ovunque, l’insegna di Facebook che divora Oculus e WhatsApp. Gag memorabile, una smart car tiene in ostaggio Jared fino a rinchiuderlo in un container in mezzo al mare. Belson sfodera tutte le eccentricità dei nuovi ricchi, dalle calzature fino al mentore indiano, utilizza animali veri come metafore durante i meeting; ma la tecnologia gli si rivolta contro in più occasioni, come con la videochiamata che comincia come prototipo di ologramma 3D e termina con una telefonata disturbata. Ci sono le incubatrici per trovare la "next big thing" e i dati artefatti e gonfiati attraverso finti utilizzatori asiatici. Fissazioni e idiosincrasie da sviluppatori ("I'm not hiring him. He uses spaces not tabs."), branchi di programmatori osservati antropologicamente (vagano in gruppi di cinque: un tizio pallido, un asiatico piccolo e magro, uno grasso con la coda di cavallo, uno con una barba strana, un indiano).
Le manie aziendali: annunciare il proprio nome e qualifica ogni volta che si interviene a una riunione; concept-meeting con musica e immagini suggestive per scoprire a cosa associare il prodotto; manie salutiste anti-fumo. E infine smartphone che esplodono, e l'internet delle cose, come il frigorifero smart hackerato per dispetto da Gilfoyle.
Le stagioni
Se la serie fosse finita con la prima stagione sarebbe stato un vero peccato, ma di per sé ne sarebbe uscito un prodotto completo. Divertente, brillante e ispirato nelle gag, lo show prende il via alla grande e, puntata dopo puntata, non delude. Anzi, trova sempre il modo di divertire e di farci amare i personaggi. Richard vive il grane dilemma: i soldi facili in una volta, oppure il suo progetto da costruire? Sceglie la seconda opzione e con questa tutta l'ansia, le umiliazioni, gli imprevisti. Come dicevamo, i momenti di rivelazione vengono sempre presi poco sul serio, parodiati: ecco che a svelare a Richard la soluzione finale ci vuole un momento fatale e l'ispirazione arriva mentre gli altri discutono e calcolano il modo più efficiente per masturbare un'intera sala congressi – la formula è stata verificata e pare sia applicabile.
Nella seconda stagione un calo c'è, ma è quasi impercettibile; la serie continua a infilare gag intelligenti e coerenti e comincia a strizzare l'occhio ai fan. Un fatto reale e tragico condiziona la trama: Christopher Evan Welch, che interpreta Peter Gregory, viene a mancare (una macabra ironia se si pensa di nuovo a Jobs). La storia si piega di conseguenza e prosegue senza piagnistei con un cambio ai vertici aziendali e un cambio di rotta. L'arco narrativo si sviluppa attorno alla causa legale intentata da Belson a Richard per il presunto furto di proprietà intellettuale e fa il suo ingresso l’arrogante Russ Hanneman. Menzione irrinunciabile per la spassosa figura dell'avvocato di Richard (l’attore è Matt McCoy) caduto in disgrazia e ravveduto dopo una vita di abusi.
Con la terza stagione salgono le aspettative. Richard deve andare alla riconquista del trono/sedia da dirigente: Jack Barker, l'inventore del pretenzioso "conjoined triangle of success", viene nominato CEO di Pied Piper al suo posto. Focalizza però gli sforzi commerciali su "una scatola", un hardware per il backup che sfrutta l'ormai famoso algoritmo di Richard. Elrich e Big Head, che nel frattempo è diventato improvvisamente ricchissimo, fondano una loro azienda con conseguenze disastrose, ma che si rivelerà provvidenziale.
Il calo che si percepisce nella quarta stagione è forse dovuto anche alla pressione del crescente successo della serie e all'esaurirsi delle trame. Lo scontro, anziché all'esterno, avviene all'interno. "Some friends become enemies, some enemies become friends", vecchia legge drammaturgica ricordata da Stewie Griffin in un celeberrimo monologo: Richard abbandona temporaneamente la banda e si allea con il nemico Belson. Impegnato in un nuovo progetto per rivoluzionare internet, Richard sconfina sempre di più nel lato oscuro, quello che lo fa somigliare allo stesso Belson. I comprimari però (alcuni in particolare) rischiano di appiattirsi su certe caratteristiche come macchiette – ad esempio Big Head che, da programmatore sebbene poco brillante della prima stagione, si trasforma in incredibilmente stupido e fortunato. Altri invece come Jian-Yang vengono sfruttati maggiormente.
T.J. Miller aveva annunciato l'abbandono della serie, e la sua mancanza nella quinta stagione si fa sentire. La presenza dell'attore era ingombrante sotto vari punti di vista, così come le sotto-trame che riguardavano il suo personaggio erano particolarmente gustose; vengono tamponate dando più spazio a Jian-Yang e ad altri, ma non basta. Le forzature negli imprevisti, sebbene accurate e verosimili, sono ormai prevedibili e indeboliscono la trama che scricchiola qua e là: le sceneggiature diventano scolastiche nel servirsi delle peculiarità dei personaggi per costruire situazioni e per strappare sorrisi, ma gli effetti sono poco brillanti, specie se confrontati con quello che Judge, Berg e compagni erano riusciti a mettere insieme negli anni passati.
Pied Piper ora ha i propri uffici e un proprio team, ma incontra nuove difficoltà sempre legate al mondo della tecnologia e del politicamente corretto aggiornato alle ultime tendenze: la moneta elettronica, i veicoli elettrici, il coming out di un cristiano gay (osteggiato però per essere cristiano), le aziende tecnologiche cinesi che copiano quelle americane, il costo della manodopera che aumenta in Asia a tal punto da diventare più conveniente in un paesino americano colpito dalla crisi. Satira e umorismo collaudati, combinati a cliché narrativi ormai familiari ai fan, continuano a rendere la serie godibile, ma la quinta è una stagione inferiore rispetto a quelle precedenti, meno originale e meno ispirata; perfino gli attori sembrano poco convinti, come se tutto fosse già stato spremuto e restasse poco da rimasticare.
Nonostante tutto, "Silicon Valley", senza uscire dal seminato del mainstream, è tra i prodotti migliori degli ultimi anni per la brillantezza e l'originalità delle gag, e per la freschezza dei dialoghi; sventola sempre alta la bandiera del sarcasmo con la formula "niente abbracci-niente morali" mentre ci presenta la parodia di un mondo spietato da cui siamo evidentemente condizionati. E mentre aspettiamo: "Always blue, always blue…"
Stagione 1: 9
Stagione 2: 8,5
Stagione 3: 8,5
Stagione 4: 8
Stagione 5: 7,5