Nel 2009 furono realizzati in Francia due film dedicati alla figura di Coco Chanel (di poco anticipati da una co-produzione televisiva interpretata da Shirley MacLaine), uno dei quali si rivelò un successo al di là delle aspettative. Quest'anno il cinema francese replica visto che sono previsti due film sulla vita di un altro colosso dell'alta moda d'oltralpe: il grande innovatore Yves Saint Laurent. Il primo è stato realizzato dall'attore-regista Jalil Lespert e ha per protagonisti due interpreti della Comedie Française; il secondo dal regista di culto Bertrand Bonello con un cast di volti noti molto interessante. Il film di Lespert è passato fuori concorso al Festival di Berlino ed esce ora nelle nostre sale distribuito dalla Lucky Red, quello di Bonello dovrebbe arrivare in autunno (dopo un possibile passaggio a Cannes o a Venezia). E' ancora presto per dichiarare chi abbia vinto la sfida fra le biopic dedicate a YSL ma di certo per Bonello non dovrebbe essere difficile regalarci qualcosa di più interessante, dato che la versione di Lespert si imbatte in tutti i problemi tipici del sottogenere.
Come il documentario di Pierre Thorreton "L'Amour Fou", il film inizia all'indomani della morte dello stilista, col suo compagno storico Pierre Bergé che decide di mettere all'asta la ricchissima collezione di antiquariato messa insieme dai due nel corso di una storia decennale che ha avuto anche i suoi momenti difficili anche se è stata piena di amore e solidarietà come dovrebbero essere tutte le storie e i matrimoni. Per Bergé comunque non deve essere stata una passeggiata, dato che il Saint Laurent descritto da Lespert è un uomo fragile, nevrotico, tendenzialmente depresso e non propriamente portato per la monogamia. Vero che è buona cosa distinguere l'artista dalla persona nel privato, ma troppo spesso i film biografici si concentrano su quest'ultimo aspetto trascurando il primo, col risultato che per capire la statura dello stilista Yves non resta che guardare il lavoro della costumista Madeleine Fontaine che riprende i saggi del Saint Laurent pensiero dimostrandoci quanto è stato rivoluzionario il suo contributo e di come i suoi vestiti abbiano in qualche modo cambiato la concezione della donna, non solo nella moda. Quindi se gli abiti hanno ottenuto quanto meritavano, non altrettanto si può dire del loro creatore. Aiuta poco in questo contesto l'interpretazione ipermanierata di Pierre Niney che nonostante una somiglianza col personaggio innegabile si concentra di più sui tic e le stereotipie dello stilista piuttosto che sulle sue passioni, facendoci capire ben poco della sua genialità.
Questo nonostante il film provi a rendicontare un periodo lungo e cruciale per il protagonista, visto che inizia a metà anni cinquanta col giovane Yves assistente di Christian Dior (a quando un film sulla sua vita?) e termina vent'anni dopo col Piccolo Principe della Moda accolto in trionfo dopo l'ennesima crisi e l'ennesimo recupero. Nel mezzo ci sono la fine della collaborazione con Dior, l'incontro con Bergé (che è il Guillaume Galliene, il gay non gay di "
Tutto sua madre", e forse è in suo onore che nel film sono accentuate le caratteristiche bisex del personaggio), il primo gravissimo esaurimento nervoso dopo la chiamata alle armi per la guerra in Algeria (Saint Laurent apparteneva ad una famiglia di pieds-noirs), l'apertura della maison Saint Laurent (con Bergé a fare da eminenza grigia), il tradimento della musa Victoire (l'attrice canadese Charlotte Le Bon, che a dispetto del cognome, e di una certa somiglianza, non ha niente a che fare col leader dei Duran Duran) idealmente sostituita da Betty (Marie de Villepin) e Loulou (Laura Smet). Il successo arriva ma non la tranquillità e negli anni scatenati del post '68 aumentano le nevrosi, il consumo di droghe e le nottate brave; persino il legame con Bergé è messo a dura prova a causa della relazione di Saint Laurent con Jacques De Bescher (Xavier Lafitte), già compagno di Karl Lagerfeld (reso con cenni inevitabilmente macchiettistici da Nicolai Kinski, lui invece proprio figlio del mitico Klaus). Il film procede per accumulo e andando avanti diventa un forsennato carosello di scene più o meno ad effetto che a lungo andare vengono a noia. Persino passaggi cruciali come la collezione Liberation (quella delle donne in smoking) diventa il pretesto per riprendere le modelle in atteggiamenti androgini e seducenti, dimenticando completamente l'intento femminista del progetto.
Nonostante il prologo, il film ignora totalmente gli ultimi trent'anni di vita dello stilista ma tutto sommato non se ne sente la mancanza visto che più o meno è chiaro come il regista li avrebbe trattati. Aline Bonetto ricostruisce in maniera credibile la scena parigina (e non solo) ma la fotografia di Thomas Hardmeier dà al tutto una tonalità pastello da sceneggiato televisivo che di certo non contribuisce molto al risultato finale.