Per il ritorno al cinema di finzione, dopo i riconoscimenti di stima ricevuti per i documentari su Pina Bausch ("
Pina") e Julio Ribeiro Salgado ("
Il sale della terra") Wim Wenders sceglie di ripartire esattamente dallo stesso punto in cui si era interrotto il suo cammino ("
Palermo Shooting", girato in Italia nel 2008) , e cioè da un tipo di cinema che fa del tempo e del suo divenire la discriminante capace di creare la cifra estetica del suoi film, e, conseguentemente, di trasformare l'impianto narrativo delle storie in un flusso ininterrotto di immagini e parole; e ancora, passando sul piano dei contenuti il principale strumento di una ricerca che non si ferma sulla soglia dei comportamenti ma ne analizza le ragioni, arrivando a sondarle in quei territori dell'animo umano dove essi hanno origine. Nel caso poi di "Ritorno alla vita", il suo nuovo lavoro presentato in anteprima mondiale all'ultimo festival di Berlino, dove il regista ha ricevuto il premio alla carriera, ci sembra che la metodologia del regista sia diventata ancora più radicale nel diradare tutti quegli appigli che normalmente danno modo allo spettatore di metabolizzare le asperità di certo cinema d'autore. Wenders al contrario rilancia le caratteristiche cinematografiche che hanno distinto le sue opere più famose, risultando monacale, tanto nell'utilizzo dell'immagine degli attori (da James Franco, in una parte che sembra fare il verso a quelle assegnate agli attori dei suoi lavori, a Charlotte Gainsbourg, e senza dimenticare Rachel McAdams), spogliati o quasi di ogni aspetto riconducibile al loro essere parte integrante dello star system europeo e hollywoodiano, quanto nel procedere del narrato, impostato su un serie continuata di "falsi movimenti" che, nel minimalismo motorio presente all'interno delle singole sequenze, impostate su una staticità che riguarda tanto le figure umane che il paesaggio circostante, sembrano rimandare contemporaneamente alle difficoltà dello scrittore Tomas Eldan, romanziere di successo alle prese con una prolungata mancanza d'ispirazione e alle conseguenze del senso di colpa scaturito dal fatto di aver provocato, seppur in circostanze che non dipendono da lui, la tragica morte di un bambino.
Assecondando la sceneggiatura origjnale del norvegese Bjorn Olaf Johansen Wenders procede considerando il binomio arte vita, legato alle premesse che danno vita alla crisi del protagonista, in maniera simbiotica, e in un rapporto di dipendenza reciproca che, nelle mani del regista, riesce a non essere irrispettoso nei confronti del dolore provocato dalla perdita di una vita umana; oltre a ribadire dal punto di vista teorico, come la creazione artistica, almeno nelle espressioni più alte, non possa fare a meno dell'urgenza derivata dal vissuto di un'esperienza personale e intima.
Considerando poi che il "ritorno alla vita" del protagonista, e in sottordine della madre e del fratello del bambino scomparso, si avvale di una fotografia - di Benoit Debie - che nella perenne oscurità degli interni, sembra voler raffigurare il baratro psicologico e il senso di morte che ne pervade il tormentato calvario, non appare peregrina l'ipotesi che Wenders utilizzi la storia del film per riflettervi la propria filosofia esistenziale, impostata secondo i dettami di una religiosità (cattolica) che in "Ritorno alla vita", trova riscontro in una concezione salvifica del dolore; implacabile, come quello che attanaglia lo scrittore ma necessario per fare pace con i propri demoni. Come si evince dagli sviluppi sentimentali e lavorativi di cui sarà oggetto la vita del protagonista al termine del suo percorso d'espiazione. In questo senso l'attitudine emotiva di Tomas, con il suo procedere erratico e meditativo e le sue insoddisfazioni sentimentali fa si che il film di Wenders stabilisca più di una similitudine con gli approdi raggiunti dall'ultimo cinema del grande Terence Malick. Con meno scioltezza e qualche lungaggine di troppo da parte del regista tedesco.
27/09/2015