Arriva in Italia solo nel 2016 il quarto lavoro da regista di Al Pacino, con il quale il grande attore torna a confrontarsi con l'adattamento di un classico del teatro a 15 anni di distanza da "Riccardo III - un uomo, un re". Se lì Pacino si era confrontato con Shakespeare, adesso è la volta della "Salomè" di Oscar Wilde. Un'opera che racconta del potere sessuale di una Lilith vergine e diabolica, che seduce un re e ne polverizza il potere mascolino, salvo esserne messa a morte.
Nel film si intrecciano molti piani: un documentario su Wilde, un documentario su Al Pacino che intende portare in scena Wilde a Los Angeles (su un set minimale e con costumi in parte moderni), un documentario sulla realizzazione di questo spettacolo che sarà anche un film (e perciò il documentario è anche sulla realizzazione del film), e, anche,
quello spettacolo e
quel film (al
making of si alternano estratti dello spettacolo - del film - stesso). Come se non bastasse, c'è anche un secondo allestimento nel deserto del Mojave, e una breve
dramatisation (davvero fiacca) di un episodio della vita di Oscar Wilde, in cui Al Pacino interpreta lo scrittore irlandese.
Il film è insomma tante cose insieme, ma si avverte bene lo scarto fondamentale fra i due registri di base, il documentario e la finzione. E non sempre il documentario cattura l'interesse. Invece, quel che vediamo dello spettacolo è sufficiente a farcene innamorare. Purtroppo si tratta di brevi frammenti. Lì comunque tutto è a livelli di eccellenza, dal comparto tecnico alle interpretazioni, come quella di Al Pacino, nel ruolo di Erode, e soprattutto quella di Jessica Chastain nel ruolo di Salomè (l'anno del film è il 2011, lo stesso di "
The Tree of Life" con cui la Chastain è salita alla ribalta).
Nel 2013 Al Pacino ha licenziato la riduzione cinematografica della "Salomé" portata in scena a Los Angeles, escludendo tutti gli orpelli documentari e il backstage. Non è teatro filmato, ma un'opera squisitamente cinematografica per scelte stilistiche e montaggio, che alterna serratamente i totali ai primi piani e si concede inquadrature ad effetto (frequenti le
plongée). In particolare colpisce l'efficacia dei primi piani, dove il regista è capace di soffermarsi su dettagli minimali difficilmente visibili dalla platea, in cui è la sfumatura a contare: un sopracciglio che si alza, uno sguardo leggermente di sbieco, una parola che muore in gola.
Se si è vista prima questa seconda versione del film (intitolata semplicemente "Salomé"), l'esperimento metalinguistico che la precede appare squilibrato, disordinato, non sempre all'altezza delle sue ambizioni. In esso la somma degli addendi sembra togliere anziché aggiungere. Nel guardare la "Wilde Salomé" del 2011 ci si trova ad aver sete di quel palco e di quel film che sarà montato successivamente, il cui ritmo qui è devastato e si ritrova in pochissime scene, frammenti di sequenze più estese (su tutte la danza di Salomé, performance dionisiaca affogata nel rosso). Solo nel montato del 2013 si può apprezzare quanto Al Pacino fosse davvero riuscito nell'intento di "unire la qualità fotografica del cinema all'essenza dell'
acting che è propria del teatro" (dal
pressbook).
Il regista si sarebbe ritenuto soddisfatto se, dalla visione del film, fosse sorta nel pubblico la voglia di riscoprire o approfondire Oscar Wilde. Senz'altro sono di buona fattura le sezioni che documentano la vita di Oscar Wilde dal matrimonio alla morte prematura in disgrazia, passando per lo scandalo dell'omosessualità e l'arresto, il tutto intrecciato alla redazione della "Salomè" in lingua francese, che, ritenuta a sua volta scandalosa, ebbe scarsissima fortuna finché fu in vita l'autore. Al Pacino - che dalla "Salomè" è ossessionato e l'ha portata più volte a teatro ("questa è la storia di un'ossessione" recita una didascalia in apertura) - ha dichiarato di essere ammaliato da Wilde al punto di esservisi identificato. E qui, per così dire, i nodi vengono al pettine. Mentre si assiste a "Wilde Salomé", la bizzarra identificazione del suo autore con l'autore della
pièce diventa via via più evidente, sino alla didascalica citazione dal "De Profundis" nel finale. Ma è un'identificazione squilibrata, ardita oltre misura. Il parallelo non sostiene il film. Da un lato, l'emarginazione sino alla rovina di un grande scrittore scomodo al suo tempo, dall'altra le peripezie semiserie di Al Pacino, in difficoltà con la produzione che gli concede soltanto 5 giorni di riprese.
L'istrionismo del regista-attore, nelle parti documentarie, si contiene a stento. Tra una sfuriata e l'altra, tra un siparietto con i passanti che chiedono autografi e i primissimi piani sul suo volto immerso nella lettura, emerge un ego molto poco temperato, che i pochi accenni autoironici non bastano a smorzare, amplificandone anzi il compiacimento.
Quasi per miracolo, a salvare il film soccorre l'intuizione di diluire la posticcia identificazione con Wilde nell'ossessione personale per un'opera che non cessa di esser fonte di ispirazione, e perciò sfugge di mano. Tutto improvvisamente sembra funzionare nella prospettiva dell'opera aperta, e inconclusa, il cui senso più intimo risiede precisamente nel suo non concludersi, nel non potersi chiudere, nell'essere farraginosa, meticcia, priva di forma, né definita né definitiva. Uggiato dall'istrionismo del suo autore, "Wilde Salomé" ci rivela, sotto questa prospettiva, un Al Pacino addirittura umile, perso nella stessa empasse di Erode - smarrito di fronte alla promessa fatta alla figliastra e costretto a decapitare il Battista. Di fronte all'amore incondizionato per un testo e per la sua messa in scena, il regista non può che cedere le armi. L'amore porta a voler vivere e rivivere l'opera, in continuazione. "Wilde Salomé" è opera aperta perché il suo autore non vuole chiudere il suo rapporto con l'opera di Wilde e con Wilde stesso, quasi ne andasse della sua stessa vita professionale. Tutto si chiarisce nel finale, in cui dopo aver assistito all'ultima scena sul palco, assistiamo alla proiezione del materiale montato (che è/non è il film stesso che stiamo guardando): nella sala di proiezione le luci si accendono a rivelare la palese insoddisfazione di Al Pacino, che mormora "torniamo nel deserto" e si allontana. Quindi il film prosegue, nel deserto: Al Pacino, solitario, marcia verso la troupe che lo scruta perplessa.
L'operazione ha il suo fascino, ma resta la sensazione che il regista non sia riuscito efficacemente nell'intento di dare un effettivo valore aggiunto alle parti che compongono il suo ibrido film. Quando avrete visto la versione montata nel 2013, compatta e vibrante, per quanto sulla carta più convenzionale, resterete ben diversamente affascinati.
09/05/2016