La storia ufficiale è ancora una volta protagonista qui a
Locarno. Dopo la Germania della Seconda Guerra Mondiale tocca alla Cina dei nostri giorni con un episodio di cronaca che qualche anno fa destò l'attenzione della gente e dei media. Protagonista un giovane che, fermato e malmenato dalla polizia per aver guidato una bicicletta senza targa, si vendicò con l'uccisione e il ferimento di alcuni agenti di Shangai. Di lui nel film non c'è traccia. A ricordarlo le fotografie che aprono e chiudono la storia ma soprattutto le parole della madre attraverso le quali si testimonia il dolore di una perdità incolmabile e le disfunzioni di un sistema crudelmente burocratico.
Seguendo una delle tendenze più frequenti di questo festival in cui la commistione tra cinema e documentario è una delle forme più ricercate dai registi - anche se in questo caso si tratta più di un accostamento che di una fusione, essendo il secondo presente all'inizio e alla fine del film, per poi lasciare spazio interamente alla finzione - "Wo hai you yao shuo" è la manifestazione di un
de profundis di raro rigore contenutistico e di stile. Analizzando i fatti con una drammaturgia enfatizzata soprattutto nelle sculture di ombre e di luce, realizzate da una fotografia di stampo espressionista, raffreddata però da una distacco che la regia realizza annullando i movimenti della camera da presa e filmando quasi sempre lasciando molto spazio tra sé ed i personaggi, Liang Ying riesce a trovare un equilibrio tra i sentimenti di una madre che non si sa rassegnare per quello che sta accadendo (cronologicamente la storia abbraccia i giorni che precedono la sentenza di condanna e la successiva esecuzione del figlio) e le ragioni di uno stato abituato a ragionare con il parametro della burocrazia di regime. In questo senso risulta esemplare la sequenza centrale del film, quella che spezza in due la vicenda togliendo ogni speranza alla donna, dove, pur radunati nella stessa stanza giudici e popolo, sono emblematicamente divisi dalla diversa esposizione alla fonte di luce. Da una parte, chiaramente visibile, il potere, dall'altra la gente oscurata dal buio della sala. E' qui, tra le parole della sentenza che viene snocciolata senza alcuna emozione e le rimostranze della madre e dei parenti nei confronti di un errore procedurale che non darà il tempo di ricorrere all'appello previsto dalla legge, che la distanza tra istituzioni e cittadini diventa abissale. Un gorgo senza fine che la pellicola non perde tempo di rappresentare nella scena successiva, con la madre sola e immersa in un'oscurità che ne lascia a malapena intravedere parte del volto. Un uno-due di rara efficacia, un colpo di spugna che lascia senza parole lasciandoci ancora una volta a ragionare sulle iniquità della vita e che ha anche il dono raro della sintesi, durando solamente settanta minuti.
Prodotto in Corea e vietato in Cina "When Night Falls" (titolo internazionale del film) potrebbe essere l'ultima fatica del suo autore, alle prese con problemi di censura nel paese natale per i contenuti di un'opera che ha destato scalpore. Se così fosse potremo aver perso un artista di sicuro talento ma, si sa, la speranza è sempre l'ultima a morire. La prova di An Nai nel ruolo della madre è di primo livello. Anche lei concorre per il massimo premio nella sua categioria.
08/08/2012