Nei film di Pedro Costa è già tutto successo. Ad accadere è stata la Storia, nei suoi eventi noti e soprattutto in quelli poco raccontati. E già successe sono le storie e le vite di uomini e donne che quelle vicende le hanno vissute in prima persona.
Il povero quartiere di Fontaínhas (Lisbona) è la cartina di tornasole del regista, i suoi abitanti sono non semplicemente i protagonisti (attori/non attori) delle sue pellicole ma ne rappresentano la stessa anima, la ragione stessa del collocare la macchina da presa in un tal punto e per una determinata durata temporale. Generando un cortocircuito che risulta essere antitetico a una estetica esaltazione della marginalità, ma pure a un canonico assemblaggio di drammaturgia di impegno civile.
Sono allora altri gli elementi principi di quello che è divenuto nel corso degli anni un vero e proprio universo costiano; il cineasta portoghese ha negli anni restituito un immaginario artistico animato da volti e parole che hanno dominato il suo stesso percorso di vita.
In un magma di anime disperse e disperate, Costa ha con la sua opera provato a organizzare i disorientamenti di una civiltà naufragata, poggiando su una linea retta (ma ricca di intersezioni, di ulteriori derive) frammenti di storie nascoste e irraccontate, facendole realmente rivivere in un cinema come tempio di ricognizione intima e coscienza capace di annidarsi nello sguardo di chi le aveva fino a quel momento ignorate.
Da "Ossos" (1997) partiva la testimonianza di questa comunità di Capo Verde che lasciò la propria patria, le proprie secche isole vulcaniche, per approdare a Lisbona verso il fantomatico sogno di un sereno domani, ma che trovò, per l’appunto, soltanto una sorta di definitiva dannazione in quella Fontaínhas che si farà dunque perenne ritorno per il cineasta portoghese.
In "Nella stanza di Vanda" (2000), uno dei film-terminali del cinema moderno, Costa operava un abbattimento sostanzioso di metodologie sintattiche più o meno adottate anche dallo stesso rigoroso e intransigente cinema di finzione nel quale operava: scavalcate le ipotesi formalistiche ma pure quelle intellettualistiche, distrutte le preoccupazioni temporali in fase di montaggio, resi incerti gli innesti di finzione rispetto alla realtà riprodotta e comunque annullata l’idea di un inizio e una fine del racconto.
Un rinnovamento di canoni stilistici (dei quali si accennerà più avanti) era riscontrabile già in "Gioventù in marcia" (2006), ma il regista precisa che "Cavallo denaro" (2014) e "Vitalina Varela" (2019) sono da intendere come un dittico: due ritratti di immigrati capoverdiani e il loro quotidiano vivere in una delle zone più marginali di Lisbona e, idealmente, contrapposti specchi comunicanti. Nel primo, difatti, il muratore Ventura - ormai (non)attore feticcio della sua filmografia - interpreta sé stesso, persona che si ritrova a fare i conti con rimpianti e incubi che si materializzano, successivamente alla Rivoluzione dei garofani (1974); sullo sfondo si intravedeva Vitalina Varela in un piccolo ruolo (una cugina del protagonista), donna conosciuta da Costa durante la lavorazione dello stesso film e la cui vita e i cui racconti convergono proprio nella pellicola che prende il suo nome e in cui interpreta una versione romanzata (ma non troppo) di sé stessa, e che vede Ventura nel ruolo secondario, ma importante nell’economia della storia, di un sacerdote in crisi spirituale.
Pedro Costa imbeve innanzitutto il tragitto dei suoi personaggi in una sorta di tempo sospeso. La protagonista conserva e testimonia la sua stessa identità, ma la sua figura non è introdotta mediante un discorso di matrice naturalistica. La macchina da presa è costantemente fissa ma a immobilizzare lo spazio-tempo è in egual misura la fotografia (indispensabile il contributo del fidato Leonardo Simões) che ci aiuta a calarci nel percorso filmico indicandoci un passato più o meno esplicato ma da ri-leggere cammin facendo e una dimensione (ciò che ci è dato vedere) che sembra annullare i canonici passaggi giorno-notte/prima giornata-seconda-giornata/interno-esterno/set-luoghi naturali. Le inquadrature sono ancora più strette rispetto a "Gioventù in marcia" e la composizione del quadro passa attraverso un’ottica prevalentemente scura ma tagliata costantemente da fasci di luce tali da richiamare alla memoria la pittura caravaggesca
L’attraversamento della donna, ma in assoluto di ogni personaggio, in tali chiaroscuri non è frutto di una ricerca, studio per approdare a una data dimensione (che sia essa filmica o spirituale). A prevalere è invece l’idea di rivelazione e questa giunge perlopiù attraverso la presenza stessa di Vitalina: i chiarori che trapassano finestre, malfamate stradine, spazi angusti, esaltano pertanto il corpo, il volto. In combinazione con il dipanarsi di storie individuali gli occhi sgranati e le nascenti lacrime, le rughe e i segni dell’età sfiorita rendono un risultato di concretissima fotogenia, la capacità di condensare un bagaglio esperienziale già dal momento stesso in cui lei è in scena, fin dalla discesa dall’aereo, ideale approdo sul set oltre che inizio del film. La rivelazione sembra giungere per il regista ancor prima che per noi spettatori.
In questo cinema che nel suo stesso esserci evoca episodi, voci, spiriti, i morti sono dunque presenze costantemente in scena: a tale proposito sono in particolar modo due i pilastri che fanno da controcanto alle parole di Vitalina. Il primo è rappresentato dal marito defunto a cui la donna si rivolge sovente in monologhi dediti a sviscerare i fatti - gli eventi di un passato remoto ma al contempo in grado di attanagliare per una vita intera – e a dibattersi in una serie di domande che partono da scelte consapevoli o meno, proprie e del defunto marito, e arrivano a toccare quesiti esistenziali quando non spiritualistici.
Ne vengono fuori tutte le delusioni individuali, i rancori mai sopiti, un amore difficilmente collocabile, la solitudine di una vita intera. Che si sposa, quest’ultima, con la fede di Vitalina e nel suo trovare in Dio presenza a cui porre domande, al di là dei silenzi ricevuti, impersonificati da Padre Ventura – seconda colonna con lei comunicante -, che quella fede l’ha persa ma che adempie i gesti della carità e dell’altruismo attraverso azioni possibili al suo cagionevole stato (salute precaria, alcolismo). Nel suo dialogo con Vitalina fa riferimento a una congiunzione possibile tra paura terrena e spirituale pace eterna. Vi è allora in quest’ottica una compenetrazione tra perpetuo castigo e ricerca di redenzione e pace, senza presumibilmente rinfrancanti soluzioni.
Donna in un universo prevalentemente regnato da uomini, Vitalina Varela non potrà forse ambire a dispensatrice di speranza, ma rispetto a figure del passato cinema di Pedro Costa si staglia, magari anche suo malgrado, come consolatrice in terra. Il suo è un ritratto di donna che non si dimentica.
cast:
Vitalina Varela, Ventura , Manuel Tavares Almeida, Francisco Brito, Marina Alves Domingues, Imídio Monteiro
regia:
Pedro Costa
distribuzione:
Zomia
durata:
124'
produzione:
OPTEC Sociedade Óptica Técnica
sceneggiatura:
Pedro Costa, Vitalina Varela
fotografia:
Leonardo Simões
montaggio:
Vítor Carvalho, João Dias