Un film riuscito a metà, questo di Roberto Feanza sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. Laddove il regista torinese brilla è nella capacità di ricreare (o meglio, rievocare) un'epoca, mettere in scena Roma con un piglio da vero autore noir, che però non disdegna quel gusto popolare di chi girava i cosiddetti poliziotteschi. Dove invece naufraga è in fase di sceneggiatura, perché Faenza, in questa sede prima autore dello script e poi realizzatore della pellicola, non riesce palesemente a governare una materia così complessa e articolata.
Innanzitutto partiamo dal principio, ovvero da un soggetto d'origine costituito dal romanzo di Vito Bruschini "La verità sul caso Orlandi". Da qui Faenza prova a seguire le orme di tre donne, collocate su tre piani temporali diversi, ognuna con la sua versione dei fatti, la sua idea di verità, per l'appunto. La giornalista Maria, interpretata da Maya Sansa, rientra in Italia per i fatti di Mafia Capitale, che fanno tornare d'attualità anche la sparizione della figlia quindicenne di un messo pontificio nel 1983. Qui incontra una collega, che ha il volto di Valentina Lodovini, la quale a suo tempo aveva svolto un'accurata inchiesta sul caso attraverso una lunga intervista a Sabrina Minardi, che aveva avuto una relazione con il leggendario Renatino De Pedis. Il criminale della Banda della Magliana, secondo le rivelazioni della Minardi, sarebbe stato l'esecutore materiale del sequestro di Emanuela su ordine dei vertici dell'Istituto per le opere di religione (lo Ior). Ma sarà vero tutto ciò? Chissà, il film non prende posizione né suggerisce ipotesi.
Faenza si diverte a spargere sul percorso indizi, imbastendo un racconto corale a più voci, tutte femminili, che si incastrano facendo saltare l'ordine cronologico. Fin qui nulla di male, ma a Faenza manca l'abilità di sceneggiatori americani avvezzi al thriller letterario, che sanno incanalare su binari sicuri fiumi di parole e di ragionamenti. Qui si ha, a un certo punto, l'impressione che il regista si perda nei meandri della narrazione esattamente come lo spettatore. Ambizioso e originale nell'impianto di partenza, il film punta a sovrapporre le versioni delle tre donne (Maria interroga Raffella, che a sua volta aveva intervistato Sabrina), ma è il gioco sulla parola chiave del film a venire meno. Sì, perché l'elemento più interessante di tutta l'opera è la nozione di verità. Assoluta o relativa che sia, è essa che tutti rincorrono, in un cammino di ricerca e di indagini che, con gli anni, si è trasformato in vera ossessione.
Ma, come si diceva, è sul piano della scrittura che il film fa acqua un po' da tutte le parti. Per cercare di rendere la matassa meno intricata, Faenza scrive parti dialogate o monologhi davvero slegati dalla vicenda, momenti di pausa in cui qualche protagonista si prende la briga di fare una sorta di riepilogo a uso e consumo di chi guarda. Un intervallo dalla finzione che trasforma e svilisce la pellicola in una sorta di mini-documentario fittizio. Un vero peccato, perché le attrici sono tutte e tre in parte e la Roma disegnata dalla fotografia di Maurizio Calvesi ha quel tono plumbeo giusto per restituire un'atmosfera di ambiguità e infamia che si era in effetti levata attorno alla vicenda della povera Emanuela Orlandi.
Perso nelle sue descrizioni esagerate, nelle riflessioni a voce alta dei personaggi principali, "La verità sta in cielo" finisce per avere gli stessi difetti di molti altri film d'impegno civile di Faenza: buone intenzioni non adeguatamente sorrette da un impianto narrativo solido. E quando lo spettatore si perde, rischia di annoiarsi. E se si annoia non premia, come invece sarebbe stato giusto, un'operazione intellettuale e di ricerca che avrebbe meritato sicuramente un risultato finale migliore.
10/10/2016