Prima parte di una trilogia (i due episodi successivi non sono mai arrivati in Italia) definita dal suo stesso autore un'"opera d'arte globale", che per emergere "avrebbe bisogno di essere assorbita non solo attraverso il mezzo cinematografico, ma necessiterebbe di indizi multimediali, virtuali, dvd, tv, libri".
Già di per sé è alquanto difficile, per uno spettatore che ama profondamente la settima arte, dar peso ad un tizio che "proclama" la "morte del cinema".
Greenaway sarebbe anche un ottimo regista (e infatti in passato ha regalato una manciata di film degni di nota), ma purtroppo il britannico, (sado)masochista a tutti gli effetti, è sprofondato in un graduale - e forse irrecuperabile - abisso masturbatorio.
Se agli inizi il cinema di Greenaway si presentava come gioco comunque retto su di una sensata sceneggiatura e delle idee rivolte a un pubblico, anno dopo anno, film dopo film, il regista ha subito il fascino della provocazione ad oltranza.
Come ogni provocatore intelligente che si rispetti, riesce a farsi amare da un pubblico (sempre meno numeroso in verità) affezionato e fedele.
Per il progetto "Tulse Luper", Greenaway tocca il fondo: attraverso uno spudorato
alter ego (di una inconsistenza psicologica imbarazzante) ci propina una storiella che vorrebbe percorrere un'intera vita. E' il presupposto per un delirio assoluto di una persona che sbatte in continuazione la testa contro il muro. E se fino a pochi giorni si poteva considerare questa messa in scena Arte (mai Cinema), adesso è ora di abolire anche le vecchie idee: non è forse vero che echi, sdoppiamenti, immagini moltiplicate, divise (uccise!) non si vedono ovunque?
Cosa dire di un uomo che dichiara di odiare numeri e simbologie per poi farne abuso esagitato?
Il sig. Peter Greenaway si ostina a dire che il cinema è morto. Ebbene: se un giorno questa nobile arte morirà, sarà grazie a tipi come lui.
21/06/2008