La lentezza, la ripetizione come incarnazioni della desolazione che costringe l'esistenza umana è la cifra dello sguardo registico di Bela Tarr. Con lentezza il mezzo di ripresa, attraverso lunghi piani sequenza, sfiora delicatamente la superficie impalpabile di una vita, di una storia, senza lasciare allo spettatore la possibilità di afferrarla a pieno, senza concedergli di penetrare fin dietro la cortina delle apparenze se non per gettare uno sguardo fugace subito respinto dalla risacca di una routine fatta di dettagli insignificanti. Il mondo di Tarr si può leggere solo in controluce attraverso un nero traslucido dal quale emergono con i suoni ripetitivi e monotoni del vivere quotidiano le ritmiche pulsanti del cuore d'un uomo, un'armonia che si smembra in pulsazioni ossessive, battiti perentori e minacciosi che scandiscono inflessibilmente un tempo che si dilata tra tocchi e rintocchi. Il tempo si dispiega come un deserto bruciato dalla vita quotidiana, arida distesa tra rari segni di vita. "L'uomo di Londra" è la rigorosa esplorazione di questi segni, di queste tracce che l'umanità lascia dietro di sé; è una pellicola che procede col passo della sua sostenuta lentezza - scandita dalla trentina di sequenze che la compongono - fino alle soglie dell'umanità dei personaggi che racconta per attenderne l'avvento completo sulla scena, quell'esplosione che tarda ad arrivare mentre la tensione viene spinta al limite del collasso.
Noir d'ambientazione francese, "L'uomo di Londra" ci riferisce d'un omicidio e di una valigetta di denaro che finisce nelle mani sbagliate di Maloin (Miroslav Krobot). È una storia che la penna di Simenon tramanda alla cinepresa di un Tarr che si permette di essere meno perfetto del solito, ma forse più coinvolto, forse più immerso nell'intreccio che racconta da rendere lacerante ogni immagine che coglie mentre con limpida maestria conduce lo spettatore al bianco profondo della fine. Le inquadrature si reggono in tempi sospesi, partono da lontano, accarezzano contorni per imbastire dapprima il contesto e poi focalizzare l'azione o la non-azione con i morbidi movimenti della cinepresa come nella magistrale sequenza iniziale quando la cinepresa insegue verticalmente il punto di vista di Maloin per poi pedinarlo orizzontalmente mentre lui osserva silenzioso i loschi movimenti che si compiono al di sotto della sua torretta portuale. La camera lo segue costantemente senza mai cedere alla tentazione di incarnarne la prospettiva, ma limitandosi ad empatizzare sinceramente per il suo punto di vista che viene rincorso incessantemente per quasi l'intera durata del film - l'ascesa iniziale della camera alla ricerca di Maloin, che è abituato ad osservare tutto dall'alto della sua postazione, non è altro che una premonizione di come verrà scaraventato per moto contrapposto nel baratro di una crisi morale. Tra la banchina del porto ed i binari della stazione ferroviaria il crocevia della morale perduta.
Le intricate coreografie disegnate dai movimenti della camera regalano uno spettacolo strabiliante lambendo l'epidermide di una vita misera, desolata che sta tutta sulla superficie di un'estetica che non riesce a squarciare il velo della ragione - molto più riflessivi "Le armonie di Werckmeister" e "Il cavallo di Torino" - ma tra le rughe dei volti (impossibile non menzionare le interpretazioni di Tilda Swinton e Agi Szirtes) e le pieghe degli abiti che ritrae riesce a scovare il seme del dolore e della vergogna, la sventura di un'esistenza anonima. Il malessere non esplode nelle parole che sono piuttosto segnali premonitori della vera tempesta che nasce e muore sulla superficie di un viso. "L'uomo di Londra" è un'ulteriore, impeccabile e rigorosa esplorazione della desolazione umana firmata dal maestro Bela Tarr.
cast:
Miroslav Krobot, Tilda Swinton, Ági Szirtes, István Lénárt, Erika Bók
regia:
Béla Tarr
titolo originale:
A Londoni férfi
durata:
139'
sceneggiatura:
Béla Tarr, László Krasznahorkai
fotografia:
Fred Kelemen
montaggio:
Ágnes Hranitzky
musiche:
Mihály Vig