Sono trascorsi ventotto anni da quando Val ha accettato, con omertosa coscienza, di pagare da solo il fio della galera per un colpo fallito, tacendo le responsabilità dei suoi complici. Scontata la pena e tornato un uomo libero, trova ad attenderlo l'amico Doc, ormai in pensione, sul quale grava, però, l'infausto compito di vendicare il figlio del boss, ucciso per errore da Val. I due amici, assieme al vecchio compagno Hirsch, fatto evadere dall'ospizio per l'occasione, cercheranno di recuperare i brandelli di una tardiva giovinezza da divorare nell'arco di un'ultima folle nottata tra eccessi allucinogeni, bordelli, fughe, inseguimenti, rappresaglie punitive e prevedibili agnizioni.
E' difficile dire quale sia l'inizio di questo film. In un certo senso, tutto è già accaduto quando arrivano i titoli di testa; si ha, anzi, l'impressione di assistere ad una storia che non sia mai terminata, come se la sobria eleganza di Walken, il piglio istrionico del mattatore Pacino, la bonaria autoironia di Arkin non avessero mai smesso di intrattenerci dalla vibrante luminosità dello schermo. Una continuità che il film sottolinea frammentando il discorso narrativo in trame episodiche, mobili siparietti che moltiplicano i possibili inizi (si vedano le scene alla tavola calda, che guidano gli stacchi tra i vari momenti e in cui il tempo sembra azzerarsi ripetutamente - meno che per Val, il suo è pur sempre un
voyage au bout de la nuit) e sfidano apertamente la logica narrativa in reiterate coincidenze, che solo tra le mani di un regista demiurgo possono tornare ad esibire una provvidenziale, interna coerenza.
Come spiegare, altrimenti, il calmo scrupolo con cui viene condotta l'ispezione farmaceutica? O la carenza di caramelle blu da parte di un'intraprendente
maitresse? O l'estenuante tolleranza del cattivo di turno, che si limita a bacchettare l'inadempiente Walken, senza prendere provvedimenti? A ben guardare, il plot procede
step-by-step con una rigorosa sequenzialità da gioco dell'oca, in cui ogni passo tradisce il successivo: se occorrerà rapinare una farmacia per l'agognato stimolante chimico, nessun vicino avrà la malsana idea di portare a spasso il cane in un raggio di duecento metri; se capiterà di finire in ospedale per overdose, l'infermiera non potrà che essere la figlia di un vecchio compare di scorribande; se si andrà a trovare l'amico con un'auto sportiva rubata, questi non potrà che rivelarsi l'abile quanto spericolato autista della scalmanata combriccola e così via.
Inutile indagare il perché di una simile scelta: il film è interamente al servizio del brioso terzetto di interpreti, al punto che l'invisibile regia di Stevens neppure cerca di inventarsi uno stile e preferisce accompagnare i gesti e gli sguardi dei personaggi, incollandosi ai loro volti con silenziosa condiscendenza.
Rimane da capire quale sia la vera anima della pellicola: una malinconica elegia dei tempi andati o l'ironica messa in scena delle mitologie del cinema americano? Probabilmente il principale difetto risiede nell'incapacità di districarsi tra le due alternative: se l'interpretazione di Pacino è sin troppo funambolica (specie nelle smodate esibizioni d'incontinenza sessuale) per non scivolare nell'auto-parodia, è pur vero che essa mal si concilia con il tono sommesso di una pellicola spesso appoggiata sullo sguardo affranto e nostalgico di Walken. Una nostalgia, comunque, ben lontana da quella che animava l'eastwoodiano "Space Cowboys", commovente ritratto di un eroe, che contempla sul proprio corpo i segni del declino e riunisce un gruppo di vecchie glorie per un'impavida missione spaziale. Ma là i segni del tempo agivano su corpi cinematograficamente vivi e disposti a dialogare col presente, con il dramma di cui erano protagonisti, mentre il passo strascicato di Walken e Pacino non interagisce con la realtà del racconto, ma si limita ad evocare i fantasmi di un cinema passato. Al punto che la caratterizzazione dei personaggi si riduce all'osso, tutto è reso emblematico dalla tradizione inscritta su quei corpi, dagli occhi arruffati di Pacino, che recupera la gestualità ingobbita di "
Insomnia", all'intensità serafica del compunto Walken.
Al suo esordio dietro la macchina da presa, l'attore Fisher Stevens, già vincitore di un premio oscar per la produzione del documentario "The Cave", ci consegna un divertito memoriale laico che esalta i valori amicali e pretende di scherzare, non sempre con garbo, sui (dis)piaceri di una senilità che si vorrebbe rimandare. Va detto che solo i fan di Al Pacino e Christopher Walken potranno dare un senso al prezzo del biglietto, ma, d'altro canto, questa limitazione finisce con l'escludere una fetta di pubblico giustamente irrisoria.
13/07/2013