Christian. Luc. Bruno. Célestine. Chistophe. Michel. Paul. Sette dei novi monaci trappisti francesi che abitavano nel monastero di Tibirihine, in Algeria. Sette uomini di Dio. Sette uomini. Sequestrati da un manipolo di terroristi islamici (benché permangano, in merito, non pochi dubbi) e barbaramente assassinati nella primavera del 1996. Ispirandosi, con qualche licenza narrativa, a quel terribile episodio della storia recente, il regista francese Xavier Beauvois atterra nelle sale italiane con la sua opera ottava, cortometraggi inclusi, insignita, meritatamente, del Gran Premio della Giuria all'ultimo Festival di Cannes.
"Uomini di Dio", resa che smorza (e castra un po') gli afflati mistici del titolo originale, il paratattico "
Des hommes et des dieux", è un film che colpisce innanzitutto per il rigore morale che lo sostiene. Una vicenda truculenta, il sacrificio di uomini innocenti, la ferocia di un fanatismo perverso sono materia che si presta generosamente a chi voglia montare uno spettacolo di facile effetto e di sicuro profitto emotivo e commerciale. Beavois, invece, che firma anche la sceneggiatura insieme al produttore Etienne Comar, rifiuta di cadere nella trappola del patetico, così come di propinarci un thriller o un action, per offrirci un film misurato e pudico, composto e grave. Ascetico, quasi. Come l'esistenza dei monaci in quel cantone remoto del Maghreb, fra preghiera e apicoltura, un'esistenza di carità e supporto all'indigenza e alle disgrazie della popolazione locale, che li apprezza e rispetta. Il rigore morale si rispecchia in un ineccepibile rigore stilistico, marchiato dalla fotografia dimessa dell'ottima Caroline Champetier come dalla rinuncia a commenti musicali extra-diegetici.
Chi entra in sala attendendosi la cronistoria degli eventi che precedettero il massacro rimarrà, probabilmente, deluso. Perché "Uomini di Dio" non è questo. O meglio, non è solo questo. "Uomini di Dio" è, fondamentalmente, un film sull'amore, in tutta l'ampiezza dello spettro semantico del sostantivo.
Agàpe, certo, ma anche amore dell'uomo per il suo simile. L'amore come tensione a quell'autenticità del vivere che consente di accantonare le paure e gli egoismi di sorta in vista di uno scopo più elevato di qualsiasi personalismo, anche il più legittimo. Come il timore di essere ammazzato da una banda di individui che stanno ingaggiando, con il governo eletto, una lotta intestina per il controllo del Paese. Quando il Governo offre ai cistercensi la protezione dell'esercito, i monaci dovranno decidere se trasformare la loro casa di pace, dove si entra disarmati, in un luogo militarizzato. Così come, con l'accentuarsi della minaccia pendente sulla loro incolumità, saranno costretti a chiedersi se andarsene o rimanere. Interrogativo che segnerà l'apertura di una ferita interna, determinata dalla divergenza delle opinioni che emergono in un primo tempo. Ma che costituirà anche il viatico di un cammino interiore di consapevolezza del proprio ruolo nel mondo e in quel mondo, quell'Algeria inospitale e violenta, che li condurrà a una scelta d'amore (per la verità, la giustizia, il popolo algerino), l'unica possibile per un animo retto. Sceglieranno unanimemente di restare. E benché le conseguenze saranno funeste, nell'assistere, dopo il rapimento, alla processione di questi uomini coraggiosi verso il loro martirio in un angolo isolato dell'altopiano, vengono in mente le parole con cui Platone conclude l'"Apologia di Socrate" o che Cristo pronuncia sulla croce: chi non sa quello che fa, tutto lo stolto male che sta procurando, sono gli assassini. Il ricordo che dei monaci conserveremo, ritratto sensibile e toccante della loro umana vulnerabilità e del loro candore, è la galleria di primi piani con cui, nella scena dolce e solenne della cena sulle note del "Lago dei cigni" di Tchaikovsky, la macchina da presa si sofferma sui loro volti commossi e sui loro occhi inumiditi. Sarebbe stato facile annegare il finale in un lago di sangue, ma anche qui Beauvois non si concede cadute di stile: è anzi in un paesaggio innevato, pervaso di un bianco che traduce, visivamente, la purezza d'animo di chi ha scelto l'amore, che la violenza viene assorbita e sussunta. Bazinianamente (?) la visione della morte ci è negata.
Illuminato da un cast di attori affiatati e notevoli, nel quale spiccano Lambert Wilson, nel saio del priore Christian, e Michael Lonsdale, alias padre Luc, l'anziano e saggio medico del gruppo, "
Des hommes et des dieux" rappresenterà la Francia (dove ha riscosso un ampio consenso di pubblico) nella corsa all'Oscar per il miglior film straniero. Arrivi o no in cinquina (glielo auguriamo), s'aggiudichi o meno la statuetta (gli auguriamo anche questo), la pellicola rappresenta una sana iniezione di cinema pensante, nel quale pulsa il cuore di interrogativi nodali. Dedicato a chi, con "pensare", non intende nulla di affine alle capziosità oniriche con codazzo di effetti digitali che, guarda caso, spopolano al botteghino...
22/10/2010