Siamo certi che non basta qualche parola per definire la carriera di un regista, eppure nel caso di Mimmo Calopresti non si può fare a meno di pensarne almeno un paio che secondo noi sarebbero sufficienti a rendere il senso. Generosità è la prima a farsi strada perché pur arrivando al successo con il cinema di finzione, il regista calabrese non ha mai perso l'attenzione verso le questioni sociali che attraverso la pratica del documentario hanno trovato espressione nelle tematiche legate al mondo del lavoro e alla sua organizzazione da cui nasce tra le altre cose un film come " La fabbrica dei tedeschi" sull'incidente che costò la vita agli operai della Tyssen Krupp e che poi, con "Volevo solo vivere" realizzato nel 2006 per conto della fondazione di Steven Spielberg, si sono aperte alla tragedia dell'Olocausto. Senso di colpa è invece quella che meglio di altre rende il significato della costante fuga dal cinema di finzione, incapace, dopo il confortante esordio nel cinema politico e militante (La seconda volta, 1995) di tenere desta la tensione nei confronti del reale, a dir poco eluso da una serie di lungometraggi (da "La parola amore esiste" uscito nel 1998 a "L'abbuffata realizzato nel 2007) votati a un intimismo di derivazione autobiografica.
Soprattutto in virtù di quest'ultima ragione "Uno per tutti" rappresentava una resa dei conti innanzitutto personale, nei confronti della propria arte e del modo di intendere lo strumento cinematografico; e poi pubblica, nei riguardi di un intero Paese, tornato ad essere quella pietra dello scandalo che nell'ottica di Calopresti diventa il pretesto per raccontare come eravamo e come siamo diventati. La storia degli amici che tenendo fede al giuramento d'infanzia ("Uno per tutti" ripreso nel titolo del film) si ritrovano laddove si erano lasciati (una Trieste livida e cupa) per tentare di scongiurare che il figlio di uno di loro finisca in prigione, è di quelle che si prestano a una duplice lettura. Da una parte infatti, l'ineluttabilità della corruzione, morale e materiale, che traspare in controluce dalle difficoltà di tenere fede alle premesse di quel sodalizio forniva di per se il materiale per imbastire una racconto intriso di rimandi agli stilemi tipici del cinema noir. Dall'altra, i tentativi di Gil (interpretato dal Fabrizio Ferracane di "Anime nere") e con lui degli altri amici, di forzare la situazione per rimediare alle colpe del ragazzo, diventano ben presto il modo utilizzato dal regista per orchestrare una ricognizione sul malessere della nostra società e sul crollo di un sistema di valori da cui come da copione niente e nessuno riesce a salvarsi. Ne la lotta politica, messa sotto accusa - come già era successo nel film del 1995 - attraverso la sequenza di uno dei tanti flash back che ci riportano alla fanciullezza dei protagonisti in cui abbiamo modo di valutare le conseguenze nefaste provocate dall'arma lasciata incustodita dal corteo di manifestanti disperso dalla polizia, ne dalle differenze ideologie, azzerate - come dice lo sbirro interpretato da un ottimo Giorgio Panariello - dalla paura di non riuscire ad arrivare alla fine del mese, ne la famiglia, incapace di rappresentare un modello di riferimento - come dimostrano la mancanza di costrutto dei comportamenti posti in essere dalla madre interpretata da Isabella Ferrari - e svuotata di quelle energie emotive e sentimentali la cui mancanza il film traduce nell'esasperata fluidità dei rapporti umani che si intrecciano nel corso della vicenda.
Spostandosi sul terreno che gli è più congeniale Calopresti organizza un dispositivo capace di fare di necessità virtù e, come tale, di riuscire a trasformare la mancanza di mezzi nell'espediente estetico che permette al regista di liberarsi da quel superfluo che aveva appesantito il suo cinema. Certo il risultato è tutt'altro che fluido, perché la sceneggiatura scritta in collaborazione con Monica Zappelli è fin troppo schematica nel rendere esemplari situazioni e tipologie umane, e l'impianto di genere troppo poco definito, specialmente quando si tratta di dare vita alle zone d'ombra che sono parte in causa del malessere esistenziale dei protagonisti così come di definire l'ambiente che fa da sfondo alle attività illecite di Gil, per risultare davvero efficace. Ma la sinergia tra l'essenzialità dei suoni elettronici prodotti dalla musica di Max Casacci, figura di riferimento della nuova scena musicale torinese, il montaggio secco e discontinuo di Valerio Quintarelli e soprattutto la ridotta profondità dell'immagini filmate da Calopresti, regalano al film una sorta di innocenza che riscatta una parte dei suoi evidenti difetti. E nonostante questo, "Uno per tutti" proprio per le caratteristiche che abbiamo appena detto lascia intendere l'inizio di una nuova fase della carriera cinematografica del regista calabrese.
cast:
Fabrizio Ferracane, Giorgio Panariello, Thomas Trabacchi, Isabella Ferrrari
regia:
Mimmo Calopresti
distribuzione:
Microcinema
durata:
88'
produzione:
Minerva Pictures Group, Rai Cinema
sceneggiatura:
Monica Zappelli, Mimmo Calopresti
fotografia:
Stefano Falivene
scenografie:
Virginia Vianello
montaggio:
Valerio Quintarelli
costumi:
Nicoletta Ercole
musiche:
Max Casacci