Il 1995 è l'ultimo anno (salvo appendice kosovara) del più cruento conflitto europeo del dopoguerra. Bruciano i Balcani e si dissolve il loro avamposto multietnico, la Jugoslavia di Tito.
Emir Kusturica, che attraverso la sua filmografia aveva seminato preziosi tasselli di quel mosaico (il tenero amarcord di "Ti ricordi di Dolly Bell?", la sinfonia tragica del "Tempo dei Gitani"), ha compiuto quello che i suoi concittadini di Sarajevo gli rinfacceranno per sempre come un tradimento. E' fuggito prima a Belgrado, coccolato dalle autorità serbe, poi negli Stati Uniti, dove ha coronato il suo "sogno americano" con "Arizona Dream", sua unica concessione all'odiata Hollywood, quantomeno nel cast (Johnny Depp, Vincent Gallo, Jerry Lewis, Faye Dunaway).
Scorbutico, refrattario alle liturgie ufficiali, Kusturica è in realtà uno dei registi più vezzeggiati del momento, specie in Europa, dove ha già fatto incetta di premi (Leone d'oro a Venezia per "Ti ricordi di Dolly Bell?", Palma d'oro a Cannes per "Papà è in viaggio d'affari"). Gli manca però ancora l'affondo per conquistarsi definitivamente un posto tra i maestri della cinematografia, accanto al suo nume, Federico Fellini. Per farlo, dovrà tornare nella viscere della sua Jugoslavia. E il percorso a ritroso sarà intriso di veleni e amarezze.
"Underground" nasce come un affresco corale in chiave grottesca su mezzo secolo di storia jugoslava (come riassunto dal didascalico sottotitolo, "C'era una volta un paese"). Dalla guerra alla guerra, dall'invasione nazista di Belgrado del 1941 alla polveriera degli anni 90. E' il manifesto dell'estetica caotica di Kusturica, l'apoteosi della sua debordante fantasia. Il film gronda di immagini, e la più forte è proprio quella del titolo. "La Jugoslavia è una cantina" - ci dice Kusturica, rievocando la caverna di Platone, dove gli schiavi vedono solo le ombre deformate della verità. Ma
underground è anche sinonimo delle
caves dove studenti, intellettuali e disertori "resistevano" a ritmo di rock al regime titoista, così come dei rifugi dove la popolazione di Sarajevo cercava scampo al furore dell'assedio.
La brillante sceneggiatura di Dusan Kovacevic affida il Grande Inganno a un artefice: il partigiano Marko (un mefistofelico, e spassosissimo, Miki Manojlovic), compagno di scazzottate e piccole truffe con Crni o Blacky (Il Nero nella traduzione italiana). I due condividono tutto, anche la passione per la svampitissima attrice Natalja (una straripante Mirjana Jokovic). Eppure non potrebbero essere più diversi: Marko è un cinico tecnocrate, destinato a divenire prima pilastro del regime di Tito, poi contrabbandiere d'armi; Il Nero - memorabile maschera del montenegrino Lazar Ristovski - è una simpatica canaglia, epitome del
machismo balcanico tutto baffoni, muscoli e canotta. Un picaresco
donchisciotte impegnato in una titanica sfida all'umanità. Sarà facile per Marko raggirarlo, imprigionandolo, insieme a una bislacca compagnia, per quindici anni in un sotterraneo, con la scusa di una guerra immaginaria. Quando Il Nero, ufficialmente morto ed eroe nazionale, riemergerà in superficie, si ritroverà nel mezzo delle riprese di un film di propaganda che ricostruisce le sue gesta anti-naziste. Così, grottescamente, l'inganno si protrarrà.
Innumerevoli - si diceva - le metafore: dall'amore di due uomini per la stessa donna (la schizofrenia della condizione jugoslava) al crocifisso ciondolante nel piazzale devastato dalle bombe (la guerra di religione nei Balcani) dal tunnel che sfocia nel Danubio (la difficile ricerca della verità) all'isola che si frantuma in arcipelago nel finale (la dissoluzione della Jugoslavia).
Ma tutto il film è un'ubriacatura di immagini, colori e suoni, con la scoppiettante colonna sonora di
Goran Bregovic a dettare un ritmo forsennato, tra fanfare tzigane e
cocek da sballo. Tutto è eccessivo, barocco, straripante. Un ibrido visionario di realismo fantastico
à-la Marquez e grottesco panslavo. Sovrabbondanza che, come nel miglior cinema felliniano, non soffoca la storia, ma ne diviene forza espressiva.
Molte sequenze sono già entrate di diritto nella storia del cinema, a cominciare da quella iniziale: il bombardamento dello zoo di Belgrado, con gli animali che vagano spauriti tra le macerie. E agli spettatori più attenti non sfuggiranno gli omaggi cinefili ad altri grandi registi, jugoslavi (Bulajic, Makavejev) e non, incluso il Vigo de "L'Atalante" nel pre-finale.
Coronamento di una magica triade balcanica (con lo struggente "Prima della pioggia" del macedone Milcho Manchevski e il capolavoro di Théo Angelopulos, "Lo sguardo di Ulisse"), "Underground" codifica - come ha osservato Nevena Daković - due caratteristiche-chiave di un genere nuovo, il film di guerra post-jugoslavo: da un lato, l'uso di riferimenti mitologici, fatalistici, antropologici e nazionali sulle cause del conflitto; dall'altro, una struttura narrativa realizzata attraverso un dialogo permanente tra passato e presente.
Tuttavia, proprio sul versante politico risiedono le sue zone d'ombra: Kusturica pare infatti condividere le ragioni della sua patria adottiva (la Serbia) confutando la tesi di un disegno egemone di Milosevic e sposando quella del "conflitto tra fratelli" fomentato ad arte dai leader revanscisti. Tesi già discutibile in sé, al tempo delle granate su Sarajevo, e resa ancor più stridente dalla marchiana gaffe del finale, quando sul tavolo del banchetto della (impossibile) riconciliazione tra i popoli della ex-Jugoslavia, viene issato un maiale, escludendo così di fatto l'etnia musulmana. Sarà anche questo a spingere Alain Finkielk dalle colonne di "Le Monde" a definire il film "la versione rock, postmoderna e alla moda, della propaganda serba più menzognera". Kusturica replicherà sdegnato, con una sarcastica auto-difesa.
Ma forse è inutile chiamare in causa la politica al cospetto di un cinema che fa dell'iperbole e del surrealismo la sua chiave di volta. "Underground" resta un'opera epocale, che ha segnato uno spartiacque nella stessa cultura dei Balcani: forse neanche Ivo Andric nel suo memorabile romanzo "Il Ponte sulla Drina" era riuscito a catturare un'istantanea così abbagliante del suo popolo.
Un film che è un necrologio, un'atroce parabola, ma anche un inno alla vitalità sfrenata degli "slavi del Sud".
30/07/2008