Il pubblico di riferimento per un prodotto come "Una fragile armonia" obbliga a riallacciarsi a un discorso precedentemente esposto, che vede lo spettatore di mezza (o ancor meglio di terza) età alla ricerca di gentili e onestri film con alla base una ricetta che comprende commozione, classicità, possibilmente emozione che sa fermarsi prima dell'approdo al buon mercato.
Questa volta i personaggi che si aggirano con equilibrio lungo la pellicola non sono anziani, ma uomini che hanno superato gli "anta" e alle prese con disparati grattacapi appartenenti a vite più o meno regolari.
Il tessuto che regola gli intrecci è l'ultimo spettacolo che un quartetto di archi deve tenere, causa morbo di Parkinson che sta colpendo proprio il primo violoncellista del gruppo. Dopo le prime battute ci si aspetterebbe quindi una lenta elegia celebrativa sospesa tra arte e vita.
Per scomporre queste aspettative il film si apre a diverse strade, ognuna delle quali contiene piccole grandi storie dei componenti del quartetto. Situazioni che, come pronosticabile, convergono nelle altrui vite, condizionandole più o meno significativamente. Queste divagazioni possono considerarsi pregio e limite del film: se è quasi sempre scampata la lamentosa mestizia di un tramonto che cuce la stoffa del sipario, le dinamiche si trascinano verso condotti frequentemente battuti: dalla coppia in crisi causa sbandata di lui per giovane donna seducente al maturo componente che si innamora ricambiato della giovanissima figlia della coppia, dai litigi che finiscono con il mettere in discussione addirittura l'esibizione finale alle meditazioni sull'età che avanza. Aspetto, quest'ultimo che sa comunque restituire alcune delle riflessioni più interessanti: basti pensare al secondo violino che dopo anni di sacrifici pretende di eseguire alcune parti da primo violino oppure alla figlia dell'uomo candidata a nuova componente del gruppo.
Sembra, a questo proposito, esserci una particolare difficoltà ad un interscambio generazionale, almeno per arti o istituzioni che le nuove generazioni preferiscono ignorare piuttosto che vedere con occhi dubbiosi.
Certamente si capisce la posizione del regista-sceneggiatore Yaron Zilberman: appassionato di musica da camera, predilige la dedizione per le prove del quartetto piuttosto che l'urgenza di un riff chitarristico. Non a caso il rock sembra nascosto, quasi non esiste (strozzato al massimo in un ascolto con cuffie). Come fulcro del film sceglie l'op. 131 in Do diesis minore, che Beethoven scrisse poco prima di morire, in sette movimenti e senza pause (due fattori rivoluzionari). A detta di Zilberman, il fatto che i musicisti non possono fermarsi ad accordare gli strumenti è un particolare di rilievo assoluto per la sua pellicola perché le scordature musicali si fanno metafora delle interferenze della vita. Esagerato: si richiederebbe un affresco di complessità fuori dall'ordinario, quando invece il suo film è una corretta variazione su temi abusati, compressi in una armonia d'antan.
Nobilitato come prevedibile da una compagnia d'attori in grado di lustrare corde altrimenti arrugginite. Il regista è bravo a lasciare loro spazio tenendo a freno qualsiasi istrionismo e a cucirgli addosso le sequenze musicali, meno a servirli con una sceneggiatura degna di nota.
cast:
Philip Seymour Hoffman, Christopher Walken, Mark Ivanir, Catherine Keener, Imogen Poots, Wallace Shawn, Liraz Charhi
regia:
Yaron Zilberman
titolo originale:
A Late Quartet
distribuzione:
Good Films
durata:
105'
produzione:
Opening Night Productions, RKO Pictures, Spring Pictures, Concept Entertainment
sceneggiatura:
Yaron Zilberman, Seth Grossman
fotografia:
Frederick Elmes
scenografie:
John Kasarda
montaggio:
Yuval Shar
costumi:
Joseph G. Aulisi
musiche:
Angelo Badalamenti