Che la vita sia, in fondo, una questione di prospettive Gábor Reisz lo evidenzia fin dai primi minuti del suo terzo lungometraggio, mostrando uno stesso banalissimo episodio visto secondo due diversi punti di vista: un insignificante incidente domestico, la perdita d’acqua di un frigorifero, è presentato, dapprima, attraverso lo sguardo trasognato di Abel, nel giorno in cui "capisce di essere innamorato"; poi è ripercorso, pochi minuti dopo, dalla prospettiva di Gyorgy, decisamente meno sognatore del figlio in quel lunedì in cui "pensa a martedì".
Lo stesso incasellamento dei personaggi in classi economico-politico-sociali sembra mutevole a seconda del punto di vista: i genitori di Abel paiono i classici membri di una famiglia medio-borghese europeista nel momento in cui il ragazzo ripassa per l’esame di maturità, quando il racconto è visto dalla sua prospettiva; quando invece il punto di vista è quello del padre, ecco che – almeno lui – diventa un "proletario" (come si autodefinisce) inviperito contro il sistema, che sia attraverso la velata critica anticapitalista (annacquano gli ortaggi che compriamo!), la populistica avversione contro l’autorità locale (il sindaco che non tutela l’amata città, primo slancio di nazionalismo che emerge nel quadro abbozzato da Reisz) o il disfattismo qualunquista ("presto crolleranno interi paesi").
Insomma, tutto è questione di prospettiva, pure i toni, sdolcinati nel racconto di Abel e caustici in quello del padre.
L’introduzione e l’espediente iniziale sono tuttavia soltanto l’antipasto del vero nucleo della narrazione, incentrato attorno a una coccarda tricolore indossata da Abel, per puro caso, il giorno del suo esame di maturità. La coccarda tricolore in Ungheria è il simbolo della rivoluzione del 1848, ma ha finito, come molti altri simboli patriottici di tutto il mondo, per essere associata a ideali conservatori e nazionalisti. Il trasognato e spaesato Abel non sa nemmeno di avercela appuntata sulla giacca, visto che l’aveva lasciata lì dal giorno della Festa nazionale. E in effetti Reisz quella coccarda non la inquadra nemmeno, almeno fino a quando il professor Jakab (suo il terzo punto di vista soggettivo del film) non fa notare la cosa al ragazzo, chiedendogli perché lui la indossi. Una domanda interlocutoria, quella del docente di storia, fatta probabilmente addirittura sovrappensiero - in una giornata iniziata nella maniera storta, come sottolinea Reisz - per cercare di distogliere l’allievo da un’imbarazzante scena muta. Eppure Abel strumentalizzerà quella richiesta per costruire un alibi per la sua bocciatura, sobillando il padre che con il professore aveva avuto in passato delle ruggini, a causa delle idee politiche del primo, che infine si scopre militante fidessino (Fidesz è il partito del premier ungherese Viktor Orbán), mentre il docente è di chiare inclinazioni liberali.
Che la coccarda, invece, non abbia avuto alcun peso nelle decisioni del professore è mostrato da Reisz non attraverso la gestione del profilmico (come nel caso del p.d.v. di Abel) bensì mediante il ricorso al montaggio: dell’episodio non v’è la minima traccia nelle dinamiche mnemoniche del professor Jakab, tanto che quest’ultimo è più incline a ricordare un passante che ha squadrato la moglie mentre questa parcheggiava l’auto sotto la scuola piuttosto che l’esame e la coccarda di Abel, cui è destinata un’eloquente ellissi.
Il principale merito di Reisz, in questa interessantissima opera premiata come miglior film della sezione Orizzonti a Venezia 80, è quello di mostrare, senza esasperarle, le divisioni di una nazione che tanto ha fatto parlare di sé nelle dinamiche politiche europee. Il tutto, senza ricorrere a caricature e senza estremizzare le fazioni, ma anzi mostrando semplici cittadini divisi dalle idee prima ancora che dalle ideologie: il padre di Abel è tutt’altro che un fanatico, così come lucido e pacifico è il medico di Gyorgy, che si scaglia pacatamente contro europei e tedeschi che accusano il suo paese un giorno di razzismo e un giorno di comunismo.
L'unico momento di vera tensione lo si registra durante l’aspro scontro dialettico tra Gyorgy e Jakab, a casa del primo, che segna la definitiva inconciliabilità delle posizioni.
Eppure, nonostante i momenti di autentico scontro frontale siano davvero pochi, rimanendo i toni, per la maggior parte del tempo, nell’alveo di una civile incomprensione reciproca, "Una spiegazione per tutto" è un’opera tutt’altro che conciliante, un po’ sulla scorta dell’"Animali selvatici" di Cristian Mungiu.
Persino la inevitabile critica ai media e al giornalismo, colpevoli di aver cavalcato e strumentalizzato una storia attraverso reticenze e ricostruzioni artificiose, è presentata in maniera fatalista, attraverso il personaggio di una giornalista mansueta e dalla faccia pulita (suo il quarto punto di vista, introdotto a circa metà lungometraggio) che sembra mossa dalle migliori intenzioni eppure finisce per alimentare un sistema di mezze verità sfruttate (e banalizzate) dalla politica.
"Una spiegazione per tutto" mette in scena in maniera sofisticata e sagace, soprattutto per meriti di scrittura, le inezie, le incomprensioni, le meschinità e anche soltanto i banali malesseri e disagi che sono alla base delle divisioni politiche e sociali di comunità complesse.
cast:
Gaspar Adonyi Walsh, Istvan Znamenak, Andras Rusznak, Rebeka Hathazi, Lilla Kizlinger, Eliza Sodro
regia:
Gabor Reisz
titolo originale:
Magyarázat mindenre
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
127'
produzione:
Proton Cinema, MPhilms
sceneggiatura:
Gábor Reisz, Éva Schulze
fotografia:
Kristóf Becsey
scenografie:
Zsófia Tasnádi
montaggio:
Gábor Reisz, Vanda Gorácz
costumi:
Rebeka Hatházi
musiche:
Gábor Reisz, András Kálmán