"The Florida Project" era il soprannome con cui veniva identificato l'Experimental Prototype Community of Tomorrow, un progetto fortemente voluto da Walt Disney nella seconda metà degli anni 60, che prevedeva la costruzione non solo di parchi tematici, di residence e alberghi, bensì di vere e proprie "comunità del futuro", all'interno delle quali funzioni ludiche ed esigenze abitative potessero coesistere e integrarsi efficacemente. Lo sforzo economico e ingegneristico portò, nel 1982, all'apertura dell'Epcot Center, uno dei quattro parchi divertimento che compongono il leggendario Disney World di Orlando. Del resto del progetto, ambizioso e candaluesco, oggi non rimane che qualche negozio discount e una manciata di fatiscenti motel dai nomi fiabeschi, riadibiti loro malgrado a sorta di housing sociali, ricettacolo di debosciati, tossicodipendenti e di una middle class ridotta ormai allo stato di sottoproletariato. Un'umanità sconfitta e derelitta, che si arrabatta come può per sfangare la giornata, con l'unico intento di racimolare i (pochi) soldi per pagare l'affitto settimanale e mantenere un tetto sopra la testa.
Dopo l'exploit di "Tangerine", l'autore indipendente Sean Baker torna a scandagliare i (non) luoghi di un'America marginale e residuale, per raccontare le storie e le esistenze che la animano. Dalle strade trafficate delle periferie losangeline, con "Un sogno chiamato Florida" si sposta nei sobborghi dell'assolata Orlando, immortalati con colori pop e approccio iperrealista. Un mondo di icone e simulacri svuotati di ogni significato, che si nutre degli scarti di un immaginario leggendario e ne denuncia, allo stesso tempo, l'inevitabile carattere finzionale. Un mondo abortito da quel famigerato American dream che continua a lusingare e tradire, implacabilmente, intere generazioni e classi sociali.
Al centro di tutto c'è la vulcanica Moonee, sei anni di travolgente ruffianeria e irresistibile faccia tosta, che passa la sua estate vagabondando con gli amici tra villette ancora in costruzione ma già abbandonate, paludi incolte, improbabili negozi di gelato a forma di gelato, cigli di infinite highway che si perdono nell'orizzonte. Ad aspettarla a casa - una stanza ammobiliata nel più squallido e pacchiano dei Motel - c'è una madre post-adolescente sboccata e infantile, irrecuperabilmente disfunzionale e sconsideratamente irresponsabile, eppure capace di sprazzi di amorevole tenerezza e di ingenuità commovente, quasi come una nipotina a stelle e strisce della "Anna" di Grifi e Sarchielli. C'è anche il vecchio custode Bobby, la bonaria saggezza di un capofamiglia, vero pilastro e unico punto di riferimento per l'intera "comunità del futuro" del Magic Castle Motel, che con ostinazione tenace e paziente, pennello alla mano, si rifiuta di consegnare il suo piccolo regno a un destino di degrado e abiezione ormai già segnato. Ci sono, soprattutto, gli amici Scooty e Jancey, insieme ai quali Moonee ingaggia instancabilmente piccoli atti di ribellione - o, forse, di inconsapevole resistenza - contro un sistema sociale - i turisti, i negozianti, gli assistenti sociali, lo stesso incolpevole Bobby - che l'ha già condannata a un'esistenza contro.
Sean Baker posiziona la macchina da presa letteralmente all'altezza della sua irrefrenabile protagonista, per documentarne in presa diretta, con piglio da
cinéma vérité, le mirabolanti scorribande di bambina: la rincorre e la insegue, con una tecnica di pedinamento empatico e partecipativo che deve tanto al cinema dei Dardenne, quanto alla Sciamma di "
Tomboy"; le permette di osservare con sguardo interrogativo e vergine un mondo di adulti del quale non coglie ancora pienamente gli equilibri e le dinamiche spietate; le regala esplosioni di baldanzosa vivacità come una Sciuscià contemporanea; le concede piccoli istanti di folgorante commozione, come quell'attimo fugace di mutismo immobile dietro la tenda della doccia in seguito all'irruzione imprevista di un "amico" della madre.
Adottando il suo sguardo, anarchico e vitalistico come solo quello dei bambini può essere, Baker imbastisce un sentito e vibrante film di denuncia sociale che è anche, allo stesso tempo, un inno all'infanzia toccante e coltissimo, con echi cinefili che spaziano da
Truffaut a De Sica, da "Gli anni in tasca" a "Zero in condotta", da "I bambini ci guardano" alla serie delle "Simpatiche canaglie", fino al congedo finale, una corsa a perdifiato che cita quasi esplicitamente quella del piccolo Antoine de "I 400 colpi", con il magniloquente castello disneyano a sostituire lo stupore del mare aperto.
Un finale di puro onirismo che, grazie anche a un brusco e intelligente scarto stilistico, contiene il senso ultimo di "Un sogno chiamato Florida": di fronte all'inesorabile brutalità della realtà, la fuga di Moonee verso "The Happiest Place on Earth" assume inevitabilmente i connotati di un'evasione illusoria, fallace e ingannevole quanto il simulacro verso il quale si dirige. Il sogno, se mai ce n'è stato uno, si è irrimediabilmente infranto. Sotto lo sguardo affranto e impotente di Bobby (e dello spettatore), i giochi dell'estate sono finiti e, con essi, l'incanto dell'infanzia. Amaramente, il film non può che terminare.
21/03/2018